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Michele Passarella

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L'ortoressia Nervosa

Storicamente i periodi di festa sono caratterizzati, tra le altre cose, da cene e pranzi particolarmente abbondanti per non dire eccessivi. Terminato il periodo di festività è facile osservare molte persone dedicarsi ad attività di vario genere finalizzate allo smaltimento degli eccessi nonché alla messa in atto di una condotta alimentare considerata sana. Tutte questo rappresenta una reazione lodevole se messa in atto in maniera consapevole e razionale. Come molti aspetti del comportamento umano la messa in atto di queste condotte attuate con modalità pervasiva può essere la spia di un problema psicologico più complesso e profondo. Nel 1997 un medico dietologo statunitense ha coniato il termine ortoressia  per definire l'eccessiva preoccupazione relativa all'alimentazione sana ed un comportamento basato sull'assunzione  di cibi salutari. Il termine deriva dalle parole greche "orto", ossia corretto e "orezis", ossia appetito; da allora molti esperti di salute mentale hanno focalizzato la propria attenzione su comportamenti alimentari che possono essere considerati disfunzionali e sintomatologici di un disturbo appunto definito ortoressia nervosa. Tale condotta inizialmente esordisce come una modalità comportamentale finalizzata a mantenere uno stile di vita sano e talvolta come intervento coadiuvante per la gestione di patologie mediche senza però manifestare componenti patologiche. Successivamente queste condotte assumono una rilevanza clinica in quanto si estremizzano  ed inoltre si osserva  un'attenzione costantemente rivolta verso cibi considerati sani che finiscono per mettere in secondo piano altri aspetti quali il gusto o il piacere stesso del mangiare. Le persone che presentano questo problema si distinguono per una ferrea auto-disciplina, percepiscono un senso di superiorità manifestando un atteggiamento denigratorio verso coloro che non perseguono un'alimentazione  da loro considerata salutare ed investono un'ingente quantità di tempo nell'identificazione, nella selezione, nell'acquisto e nella preparazione degli alimenti sottoposti ad un rigido esame sia nelle caratteristiche stesse del cibo che nella modalità di cottura. A questo si aggiunge un evitamento di cibi considerati non sani con una riduzione, spesso significativa, del numero di alimenti da includere nella dieta. La percezione di controllo sul cibo viene esperita come gratificante e tende a rinforzare e di conseguenza mantenere questo comportamento.  Questo comportamento in realtà può compromettere lo stato di salute fisico e la qualità di vita poiché interferisce con la vita sociale e relazionale conducendo spesso ad un isolamento; anche le relazioni familiari o con il partner possono essere compromessi; quando questi contestano o si rifiutano di aderire a questo stile di vita si osservano conflitti che possono anche portare all'allontanamento volontario. Attualmente l'ortoressia nervosa non rientra tra le sindromi psichiatriche ma viene menzionato come una variante di un disturbo della nutrizione e dell'alimentazione; pensieri intrusivi ed ossessivi riguardo il cibo ed alla salute, le preoccupazioni eccessive per la contaminazione e le impurità, i rituali di preparazione ed al consumo del cibo mette l'ortoressia nervosa in stretta relazione con il disturbo ossessivo-compulsivo distinguendosi però da esso per le caratteristiche egosintoniche di pensieri e comportamenti. Distinguere l'ortoressia nervosa dal disturbo ossessivo-compulsivo rappresenta il primo passo da parte del terapeuta al fine di una corretta valutazione del problema presentato. Le cause del disturbo in questione è oggetto di ricerca mentre sulla diffusione e l'età d'esordio dell'ortoressia nervosa i dati sono parziali e poco attendibili; dalle informazioni in possesso si nota una diffusione prevalente nei paesi cosi detti industrializzati e pare si manifesti prevalentemente su persone di sesso maschile, livello di istruzione e condizioni economiche medio alte. Le condotte alimentari descritte necessitano di un trattamento specialistico multidisciplinare; trattandosi però di un disturbo egosintonico raramente chi ne soffre richiede un colloquio con uno specialista eccezion fatta per dietologi o nutrizionisti della quale solitamente vengono ignorate opinioni o prescrizioni non in linea con i propri punti di vista considerati inevitabilmente più veritieri. Questo rende il trattamento dell'ortoressia nervosa particolarmente difficile e rappresenta la principale sfida per gli operatori del settore.

Dr Michele Passarella 

La Metacognizione

Nel proprio percorso evoluzionistico, l'essere umano ha raggiunto l'attuale stadio passando attraverso milioni di anni nella quale ha aggiunto, ad ogni salto evolutivo, caratteristiche fisiche ed abilità mentali che lo differenziava dal resto delle specie animali comprese quelle umane filogeneticamente primitive. Oltre alle competenze cognitive marcatamente diverse da ogni specie animali e che caratterizzano la maggior parte dei nostri comportamenti specie-specifici, l'essere umano possiede una caratteristica, non esclusiva rispetto ad altri mammiferi ma di gran lunga più efficace in termini di qualità e di quantità, ovvero la metacognizione. In sintesi estrema la metacognizione consiste in qualunque attività cognitiva che abbia come oggetto il funzionamento della mente, sia propria che altrui. Si tratta quindi di conoscenza o di processi mentali che si riferiscono, monitorano o controllano qualunque aspetto della cognizione nell'accezione più legata al senso comune: credenze, impressioni, idee, sensazioni riferite alla propria mente ed a quella degli altri, animali compresi. Tecnicamente si distingue la conoscenza metacognitiva dalla regolazione metacognitiva. La conoscenza metacognitiva è un processo elementare e riguarda l'insieme delle conoscenze che le persone possiedono sulla mente individuale o in generale; la regolazione si riferisce ad una serie di competenze e funzioni mentali legate ai differenti processi cognitivi: queste competenze riguardano la pianificazione, l'allocazione di risorse e la distribuzione di esse, il monitoraggio del proprio funzionamento mentale, il riconoscere eventuali errori e correzione di essi oppure il potenziamento di abilità funzionali. La conoscenza e la regolazione sono tra loro strettamente connesse. Questa abilità mentale risulta estremante complessa ed influenza tutti i processi cognitivi (compresi quelli legati all'apprendimento), oltre a molti comportamenti relazionali; nell'età adulta è spesso connessa a problemi emotivi ed anche fortemente implicata in molti processi psicopatologici. Parlando di metacognizione è obbligatorio riferirsi alla coscienza; anche se non è indispensabile che essa sia completamente consapevole, è ovvio che solo una piena consapevolezza garantisce uno sfruttamento adeguato delle risorse cognitive e mentali in generale. Per quanto riguarda lo sviluppo individuale nel bambino, questi  deve innanzitutto sviluppare la consapevolezza che le persone possiedono una mente e quindi stati e processi mentali; tecnicamente questo viene considerato possedere una teoria della mente, aspetto irrinunciabile per un corretto funzionamento mentale e relazionale. Possedere una teoria della mente ed una metacognizione genera nel bambino sia la conoscenza della propria mente che di quella altrui; queste abilità psicologiche sono implicate anche nello sviluppo del Sé e la consapevolezza di Sé cioè quel processo evolutivo estremante complesso nella quale intervengono moltissime variabile e che influisce in maniera determinante sullo sviluppo della personalità individuale.

Psicologia e Cancro

Le malattie note come neoplasie o tumori non sono una realtà recente ma sono conosciute fin da quando è nata la medicina: la prima testimonianza scritta nella quale si parla di tumore alla mammella risale a circa 5000 anni fa per opera dei medici dell'antico Egitto. Esse rappresentano oggi come in passato una delle sfide più difficili da affrontare da parte della scienza medica e la loro diffusione è sempre più estesa in maniera trasversale per età, genere di appartenenza, e, seppur in maniera minore, luogo di residenza geografica. In maniera estremamente sintetica un tumore può essere definito come una massa abnorme che cresce in eccesso ed in maniera scoordinata rispetto ai tessuti normali e persiste anche in seguito alla cessazione degli stimoli che hanno dato il via a questo processo. Le cause delle patologie oncologiche sono il principale oggetto di studio della ricerca compreso il dare risposta a quella che viene definita "vulnerabilità individuale" ossia sul perché non tutti i fattori oggi ampiamente noti come cancerogeni provochino le stesse conseguenze sulle persone esposte; il fumo di sigaretta rappresenta un buon esempio in quanto pur essendo palesemente dannoso e cancerogeno non tutti i fumatori si ammalano di cancro: conoscere questi meccanismi patogenetici da un lato e protettivi dall'altro rappresenterebbe una svolta epocale nella lotta ai tumori. Negli ultimi decenni l'evoluzione degli strumenti diagnostici, delle terapie farmacologiche e della chirurgia ma sopratutto l'attenzione alla prevenzione ed alla diagnosi precoce, ha reso possibile sia l'aumento delle aspettative e della qualità di vita delle persone colpite dalle malattie oncologiche ma sopratutto ha elevato in maniera esponenziale i tassi di remissione completa. In conseguenza di questo negli ultimi anni anche gli aspetti psicologici degli utenti e della propria famiglia, che in passato passavano inosservati,  sono divenuti oggetto di interesse sia da parte delle equipe curanti che delle equipe che operano nel settore della ricerca. Le componenti psicologiche delle malattie neoplastiche in realtà non sono mai state ignorate; esse però venivano chiamate in causa come aspetti eziologici mai verificati e spesso fuorvianti, come ad esempio considerare una massa tumorale come la conseguenza di un fantomatico conflitto inconscio che si manifesterebbe quindi attraverso la malattia oncologica. Questo posizione, anche se non del tutto abbandonata, oggi risulta priva di fondamento scientifico e, in base alle evidenze della ricerca, considerata una falsa credenza non molto dissimile dall'idea della malattia oncologica come esito di fatture o altre pratiche magiche, credenza anche questa erronea ed alquanto banale ma ancora presente in alcune culture e sostenute anche da persone che propongono metodi di cura non contemplate dalla Medicina. C'è da sottolineare però che se la ricerca sul cancro non ha evidenziato un rapporto diretto tra attività mentale ed insorgenza di masse neoplastiche, discorso diverso riguarda l'intervento indiretto di emozioni negative, stili di vita e comportamenti a rischio: un esempio su tutti, di nuovo, il fumo di sigaretta principale causa di tumore al polmone e comportamento strettamente legato a fattori psicologici. La componente mentale è ovviamente chiamata in causa per tutti i comportamenti a rischio (e di conseguenza della manifestazione dell'affezione) e rappresenta uno degli aspetti principali della prevenzione delle malattie oncologiche e non. Gli aspetti psicologici entrano in gioco non solo nella prevenzione ma anche nei processi di cura; la ricerca ha ampiamente dimostrato come un intervento psicologico specialistico e strutturato sia un ottimo coadiuvante delle terapie mediche (farmacologiche e chirurgiche) riducendo il grado di distress percepito e la compliance alle terapie, aumentando la qualità di vita ed aumentando anche le possibilità di remissione della malattia.

Dr Michele Passarella

La leadership

Il termine leadership deriva dalla parola inglese "to lead" traducibile anche come l'arte di saper condurre; in letteratura non esiste una definizione universalmente condivisa di cosa significhi essere un leader ma in linea di massima con questo termine si indica un membro la quale esercita una posizione di preminenza sul resto del gruppo finalizzata a guidare o condizionare il comportamento degli altri membri. E' utile sottolineare la differenza con il concetto di comandare, termine che descrive la conduzione autoritaria di un sistema spesso caratterizzato da una organizzazione gerarchica ben definita e stabile nel tempo. Una leadership può essere formale od informale: con la prima si intende un incarico affidato da un agente esterno (tipica delle organizzazioni riconosciute anche sul piano giuridico come ad esempio una azienda) mentre con la seconda si intende quella affidata in maniera implicita dal resto del gruppo (come avviene ad esempio in una squadra sportiva o in un gruppo di volontari). Secondo molti ricercatori la vera leadership è quella informale poiché derivante da comportamenti della persona la quale risulta in grado di orientare, decidere, mediare tra gli altri membri del gruppo senza che gli sia stato chiesto precedentemente o formalmente di farlo. Un leader è tale nel momento in cui è in grado di porsi come modello, di saper motivare, saper comunicare in maniera efficace, delegare ed individuare a chi poterlo fare, saper gestire le risorse a disposizione ed utilizzarle nel modo più proficuo possibile sopratutto in termini di risorse umane. A scopo didattico si tende a suddividere la leadership in tre stili: autoritario; democratico; permissiva. Si tratta di una suddivisione didattica poiché nessuno dei tre stili è migliore di un altro ne sembra possibile una suddivisione realmente netta tra di essi. In effetti lo stile di conduzione di un gruppo andrebbe determinato in base alle necessità del momento, agli obiettivi ed alle risorse a disposizione. In Psicologia si discute da anni se la capacità di leadership sia o meno un tratto di personalità; le ricerche non sono al momento in grado di fornire una risposta univoca. Nel leader sono presenti però delle caratteristiche stabili e solitamente acquisite negli anni dello sviluppo quali capacità di assumersi rischi, proporsi come modello, tolleranza alla frustrazione, capacità di modificare le proprie opinioni nonché una buona dose di empatia, tutte caratteristiche legate  allo stile cognitivo della persona e fortemente influenzati dai tratti di personalità; ciò induce a ritenere, tra le altre cose, che la capacità di leadership sia una dote intrinseca e naturale della persona appresa e tendenzialmente stabile negli anni. Appare doveroso sottolineare che non possedere doti di leadership non rappresenta una carenza ne tanto meno motivo di biasimo; premesso questo se tutte le persone possono divenire leader, per alcuni questo risulta particolarmente semplice e confacente alla propria personalità risultando di gran lunga più adeguati a ricoprire tale ruolo.

Dr Michele Passarella

Il pregiudizio

Il termine pregiudizio si riferisce ad un pensiero, idea, concetto concepita sulla base di convinzioni personali senza una conoscenza diretta dei fatti, delle persone, delle cose e tale da condizionare fortemente le proprie valutazioni. Esso può essere interpretato come frutto dell'evoluzione e della necessità da parte del sistema cognitivo di elaborare e processare quante più informazioni possibili  nel minor tempo possibile al fine di comprendere possibili minacce ed attuare conseguenti misure preventive; tutto ciò ovviamente a scapito di una elaborazione  approfondita e corrispondente alla verità. Oggi questo termine ha assunto una valenza prettamente negativa indicando un atteggiamento che può essere definito come la tendenza a rispondere prontamente, in maniera favorevole o sfavorevole, ad un particolare oggetto o classe di oggetti. Questi atteggiamenti hanno un contenuto (l'oggetto del pregiudizio), una valutazione (il giudizio) e sono relativamente consolidati e resistenti. Ognuno di noi si forma un atteggiamento praticamente su ogni cosa e siamo predisposti a reagire ad un oggetto, problema, gruppo sociale in maniera positiva o negativa generando molto facilmente dunque dei pregiudizi.  Il pregiudizio è composto da tre componenti: una componente cognitiva, ovvero i concetti e le percezioni degli oggetti; la componente affettiva, ovvero la componente emotiva verso l'oggetto ed una componente comportamentale ovvero la disposizione ad agire verso l'oggetto in questione. Quando un pregiudizio si traduce in un comportamento specifico e tendenzialmente negativo si parla di discriminazione, comportamento questo particolarmente grave e che può incidere sui diritti e sulla salute, psicologica e fisica, di chi lo subisce. Sui pregiudizi si può fare molto affinché essi non portino a conseguenze deleterie per chi li subisce ed in parte per chi li elabora. In merito l'educazione e dunque anche scuola possono fornire un contributo elevato innanzitutto stimolando una maggiore riflessione sui propri pensieri e sulle proprie valutazioni proponendo sia un maggiore approfondimento delle informazioni in proprio possesso sia abituando a vagliare più ipotesi prima di giungere ad una conclusione. Anche approfondire la conoscenza e le caratteristiche dell'oggetto del pregiudizio assume un ruolo molto importante. Dunque la conoscenza ed un pensiero orientato in maniera razionale sono il principale strumento per combattere i pregiudizi e per evitare la discriminazione in ogni sua manifestazione.

Dr Michele Passarella

Il Sé

Il Sé rappresenta un aspetto cardine della natura umana sulla quale la psicologia ha convogliato moltissime energie al fine di comprenderne la conformazione, lo sviluppo, le problematiche. Esso sinteticamente rappresenta il nucleo della coscienza auto riflessiva, la totalità delle istanze psichiche relative alla persona in contrapposizione alle relazioni con gli altri e che mantiene una continuità nel tempo nonostante i cambiamenti somatici che caratterizzano l'esistenza umana. Ognuno di noi ha un'immagine di Sé che lo guida nel rapporto con se stesso e nelle relazioni interpersonali; molte persone nella loro quotidianità si pongono domande in merito il proprio Sé e come esso lo guida nella propria esperienza giungendo a trarre conclusioni più o meno accurate che a loro volta aggiungeranno elementi conoscitivi. Il problema nasce nel momento in cui si decide di studiare in termini scientifici questa istanza psichica. Studiare il Sé chiama in causa quello che viene definito il circolo epistemologico della mente, ovvero che il sapere parte dalla mente e torna alla mente stessa. Per quanto questa considerazione sia intrisa di interesse e forse anche fascino, mette in evidenza la difficoltà di porsi in maniera quanto più oggettiva possibile rendendo appunto difficile la ricerca in termini scientifici. I primi studi furono avviati già negli anni 80 del diciannovesimo secolo dal noto Psicologo William James i cui studi furono condotti esclusivamente attraverso l'introspezione, metodo sottoposto ripetutamente a critiche appunto per la scarsa attendibilità nelle conclusioni. Successivamente queste ricerche sono state al centro della storica diatriba tra natura-cultura che ha permeato anche la Psicologia e mai definitivamente risolta in termini scientifici. Alcuni noti ricercatori sostengono che non esista qualcosa di definibile come Sé portando a sostegno alcuni studi sulla personalità. A questi si sono contrapposti altri psicologi che attraverso lo studio dei processi di sviluppo psichico sottolineano come già tra i due ed i sei mesi di vita il neonato metta in evidenza il saper  distinguere la rappresentazione del proprio mondo interno con quello esterno e ciò sarebbe possibile solo, appunto, con l'esistenza di una coscienza auto riflessiva. Lo sviluppo del Sé si osserva nel corso della prima infanzia ed è il risultato di un complesso intreccio di esperienze soggettive e sviluppo fisico; esso si mantiene stabile ma è comunque soggetto a cambiamenti dovuti all'età anagrafica ed alle esperienze attraverso un rapporto circolare tra informazioni già in possesso e quelle che vengono acquisiste nel corso del ciclo vitale.  Per quanto la ricerca si evolva e gli strumenti siano sempre più raffinati, lo studio di questo aspetto cardine della mente umana è ancora lontano dall'avere delle nozioni definitive ed accettate da tutti e questo rappresenta sia uno stimolo sia un ulteriore motivo per la quale esso risulta essere il centro di interesse della ricerca e del sapere in psicologia. Il Sé ha stimolato l'interesse anche della psicoterapia portando un altro noto psicologo, Rollo May, a ritenere il compito della psicoterapia quello della ricerca e della conoscenza del vero Sé. In qualsiasi modo si intenda la psicoterapia ed i termini utilizzati per parlare  della conoscenza di se stessi, il divario che si verifica tra ciò che una persona è e quello che desidera essere rappresenta un aspetto tipico dell'intervento psicoterapeutico e tutti gli psicoterapeuti sono chiamati in causa nello studio del Sé e negli altri conflitti che inevitabilmente esso genera nel corso della nostra esperienza di vita. 

Dr Michele Passarella

La narrazione di Sé

"La vita è un racconto: non importa che sia lungo ma che sia ben narrato" è un'idea  sostenuta da Seneca circa 2000 anni fa. Le Scienze Umane  ed in particolare la Psicologia hanno da tempo riconosciuto che i processi di costruzione di significato sono da collocare al centro dell'individualità della persona; la nostra personalità, le nostre relazioni, le nostre esperienze e tutto ciò che ci succede quotidianamente si organizza spontaneamente all'interno di trame narrative che si snodano cronologicamente attraverso lo svolgersi più o meno strutturato di mutamenti e trasformazioni spinti da pensieri, emozioni e comportamenti. Sempre più Psicologi sostengono che la nostra identità è un processo di costruzione attuato tramite le narrazioni; non solo, l'organizzazione mentale di una biografia personale intrecciata adeguatamente alle storie di vite altrui contribuisce in maniera determinante a dare un senso alle proprie esperienze ed anche alla propria esistenza. La ricerca in Psicologia ha evidenziato inoltre che anche i processi di memoria sono influenzati dalla funzione narrativa in modo particolare, ovviamente, la memoria episodica maggiormente implicata negli eventi biografici. Narrare rappresenta l'unico modo che abbiamo per far conoscere un evento accadutoci ed in generale la nostra storia personale. Oltre a ciò essa serve per organizzare e dare una coerenza mentale alle situazioni nella quale siamo coinvolti e quando la funzione narrativa si interrompe, per motivi svariati, solitamente la nostra mente tende a costruire elementi coerenti con le conoscenze pregresse al fine di mantenere integra la funzione narrativa anche se i contenuti espressi non sono veritieri; in riferimento a quest'ultimo dato alcuni parlano di istinto alla narrazione anche se a riguardo non vi sono ancora supporti scientifici di rilievo. La narrazione di sé può avvenire in forma scritta o orale; la seconda in particolare però affinché abbia senso, prevede la presenza di un uditore che possa accogliere il racconto e dimostrare di averlo compreso. La narrazione di sé rappresenta inoltre un aspetto cardine di tutti gli interventi psicologici ed in particolare la Psicoterapia; molte ricerche in merito suggeriscono il ruolo terapeutico della narrazione anche se bisogna sottolineare come questo dato in realtà rischia di essere letto in maniera alquanto riduttivo nel momento in cui si sostiene, come alcuni asseriscono, che la narrazione di sé possa da sola fungere da cura per i propri disagi emotivi.

Dr Michele Passarella

Psicologia ed organizzazioni lavorative

Fin dalle sue origini la Psicologia ha preso in considerazione molti problemi legati al mondo del lavoro ponendo attenzione sia alle diverse condotte lavorative sia ai processi psicologici e psicosociali che le sottendono. Anche se l'interesse scientifico per questi aspetti sono relativamente recenti, sull'argomento si possono rintracciare riferimenti disseminati in molti trattati anche lontani nel tempo. Fu solo nel 20° secolo però che apparvero i primi tentativi sistematici di applicare le conoscenze della Psicologia ai problemi del mondo del lavoro e dei lavoratori. Gli Psicologi operanti in quella che fu definita "Psicotecnica" si interessarono all'adattamento delle persone all'ambiente fisico ed al regime di vita del lavoro, alla formazione, allo studio delle abitudini e delle caratteristiche individuali nonché alla motivazione personale ed alla resistenza alla fatica. Queste nuove conoscenze furono applicate dall'esercito statunitense nella selezione dei militari durante la Prima guerra mondiale nel tentativo di assegnare ad ogni soldato i compiti per la quale erano meglio predisposti oppure motivati; tale approccio fu presto seguito da altri eserciti europei. Al termine della Grande guerra anche in Italia si sviluppò molto interesse in merito ed uno dei pionieri della Psicotecnica fu il noto frate Agostino Gemelli mentre nel secondo dopo guerra molte industrie si munirono di un centro di Psicologia. A seguito di questa esperienza si diffuse l'immagine dello Psicologo del lavoro come esperto della selezione del personale e si avviarono numerosissime ricerche al fine di individuare la miglior strategia nella gestione delle risorse umane suscitando sia forte interesse che accese critiche sopratutto di natura politica ed ideologica. Questo tipo di lavoro successivamente si è sviluppato in maniera più scientifica dando vita ad una riflessione sul tema più ampio dell'orientamento professionale, ovvero quel settore mirante a comprendere la costruzione di un percorso professionale utilizzando informazioni sulla persona, sulle proprie caratteristiche, attitudini, interessi, sui propri punti deboli, sulle competenze e sulle ambizioni della persona stessa. Sulla base di queste conoscenze gli Psicologi cercano di fornire un contributo al mondo del lavoro  nel tentativo di indirizzare le persone verso lavori, mansioni o compiti maggiormente graditi o consoni alle proprie caratteristiche, approfondendo inoltre la relazione tra la persona ed il suo ambiente lavorativo (ergonomia psicologica), studiando la sicurezza degli ambienti e cercando di contribuire a ridurre gli infortuni. Oltre a questo, al fine di rendere l'esperienza lavorativa meno stressante possibile, negli ultimi anni si stanno dedicando molte risorse allo studio dello stress lavorativo e delle patologie correlate, al fenomeno del burnout e del mobbing. Gli strumenti utilizzati a tal fine sono quelli tipici della Psicologia quali colloqui individuali, colloqui di gruppo, analisi dell'ambiente socio lavorativo, role playing e simulazioni, test psicologici, l'analisi della mansioni, stesura di profili di personalità. 

Dr Michele Passarella

Affezione da Alzheimer

Il termine demenza deriva dal latino e letteralmente significa "essere privato della propria mente"; questo termine è stato introdotto in medicina già nel 20 d.C. indicando genericamente le condizioni di alterazione dell'intelligenza e del comportamento ma ben presto assunse un significato molto generico utilizzato indistintamente sia nel gergo comune che in quello dei medici. Oggi con il termine demenza si indica il declino globale delle capacità cognitive osservabile in persone vigili ed il cui stato di coscienza non è alterato. Essa è caratterizzata dalla presenza di un deficit della memoria sia a breve termine che a lungo termine associata alla perdita di altri processi cognitivi tra i quali il linguaggio, il ragionamento astratto, capacità di calcolo, di coordinamento dei movimenti nonché di riconoscimento di oggetti e persone. Nelle fasi avanzate della malattia essa rende le persone incapaci di svolgere le funzioni quotidiane autonomamente, comportare modifiche alla personalità e condotte aggressive anche in coloro che mai ne avevamo manifestate in precedenza. In linea di massima vengono distinte le demenze in varie forme: primarie (o degenerative) tra i quali sono compresi il morbo di Parkinson ed il morbo di Alzheimer, che si caratterizzano per il deterioramento delle facoltà cognitive a seguito di malattie del sistema nervoso centrale; le demenze secondarie, non sempre facilmente distinguibili da quelle primarie,  che insorgono a seguito di malattie quali tumori, traumi cranici, disturbi endocrini ecc; le demenze vascolari che insorgono a seguito a danni cerebrali di natura ischemica o ipossica. La malattia di Alzheimer fu descritta per la prima volta nel 1907 dal medico tedesco Alois Alzheimer durante un convegno scientifico; per la prima volta veniva delineata una malattia caratterizzata da complessità clinica con l'interfaccia di sintomi psichiatrici, comportamentali, neurologici ed internistici con alterazioni anatomici e istologici peculiari. Questa forma di demenza è la più diffusa nella popolazione anziana costituendo circa il 55% dei casi di deterioramento mentale ad esordio tardivo; nel mondo si stimano circa 80000 nuovi casi all'anno con un possibile aumento esponenziale nei prossimi anni. Sono state fatte numerose ipotesi sulle possibili cause che la determina: traumi cranici, accumulo di metalli nel cervello, infezioni virali, difetti immunologici o fattori genetici; in merito sono in corso molteplici ricerche al fine di avere un quadro eziologico e l'individuazione delle cause in maniera più precisa e scientificamente valida. La malattia è cronica e degenerativa caratterizzata dalla progressiva ed inarrestabile morte cellulare dei neuroni appartenenti alle aree associative della corteccia cerebrale. La malattia segue un percorso abbastanza lineare nella quale vi si può individuare una fase pre-morbosa nella quale la malattia esordisce senza però dare segni visibili; questa fase si stima può durare anche 10 anni: dopo la fase pre-morbosa si osservano i primi segnali solitamente a carico del sistema cognitivo ed in particolare nella memoria e nelle capacità di orientamento spazio-temporale. A questi si aggiungono i disturbi comportamentali quali insonnia, agitazione e bizzarrie alla quale segue presto la perdita di autonomia fino all'allettamento totale inducendo, mediamente 10 anni dopo l'insorgenza dei primi sintomi, la morte della persona: tra fase pre-morbosa e malattia conclamata la durata media della patologia dunque è di 20 anni. La malattia in questione rappresenta, oltre che una emergenza socio-sanitaria, un dramma per la persona colpita il quale, durante le fasi di esordio dei sintomi, solitamente prende  atto dei deficit e delle dimenticanze. Nelle fasi più avanzate della malattie viene meno la consapevolezza di malattia fino ad un graduale ritiro sociale e della percezione della realtà. Il dramma è condiviso dalla famiglia delle persone affette sia per via dello stress causato dalla gestione di una persona i cui comportamenti non sono prevedibili e spesso incomprensibili, sia per le reazioni emotive causate dal dover assistere al cambiamento di personalità, al decadimento mentale e fisico di una persona cara: una delle situazioni più dolorose alla quale un familiare deve far fronte è quella del mancato riconoscimento di se. A seguito di svariate ricerche, molti Psicologi affermano che il carico di stress e di sofferenza emotiva di una persona che assiste un familiare affetto dal morbo di Alzheimer (anche a causa della durata media della malattia) è superiore a quella causata dall'assistenza di persone affette da altre patologie, comprese quelle oncologiche. La demenza da Alzheimer è dunque una patologia che colpisce una intera famiglia ed i programmi assistenziali dovrebbero, ove non ancora previsto, offrire interventi di assistenza e sostegno non solo al malato ma anche alla famiglia ed in particolare al cosi detto caregiver.

Dr Michele Passarella

Violenza psicologica ed ambienti di lavoro

Il lavoro rappresenta un ambito di rilievo nella vita quotidiana ed esso può essere causa di grande soddisfazione sia in termini di carriera ma anche come strumento per raggiungere obiettivi desiderati e fonte di realizzazione personale. Ovviamente se per molti questo è vero per altre persone esso rappresenta invece fonte di frustrazione, delusione, stress e disagi sia fisici che psicologici; inoltre lo stress che può derivare dal lavoro in se o dalle relazioni ad esso correlato possono essere motivo di insoddisfazione, desiderio di cambiare ambiente fino a vere e proprie sindromi patologiche. Di grande rilievo assume il fenomeno del mobbing che, a differenze di sgradevoli ma comuni conflitti con colleghi, si rivela essere una forma di violenza psicologica a tutti gli effetti con conseguenze gravi per chi la subisce. Per mobbing si intende una pratica vessatoria, persecutoria o più in generale violenza psicologica perpetrata da un datore di lavoro o da colleghi nei confronti di un lavoratore per costringerlo alle dimissioni o comunque ad allontanarsi dall'ambito lavorativo per ragioni di concorrenza, gelosia, antipatia, invidia o altre motivazioni non inerenti la condotta professionale. Questo tipo di comportamento è alquanto radicato nel tempo anche se solo negli ultimi anni si è focalizzata l'attenzione su di esso; inoltre comportamenti simili sono stati registrati anche in natura in alcuni studi etologici. Questa forma di violenza si distingue dal bullismo, presente prevalentemente in ambienti scolastici, poiché raramente colui che lo subisce, mobbizzato, vede lesa la propria incolumità fisica per subire invece forme di violenze più sofisticate ma sopratutto più subdole spesso non visibili. Si tende a distinguere il mobbing in diverse forme: quello verticale, quando il mobber è un superiore; quello orizzontale, quando gli attori sono sullo stesso piano gerarchico (o quando il mobber è un sottoposto); quello collettivo quando esso viene messo in atto dal gruppo. Sempre sul piano delle definizioni alcuni esperti tendono a distinguere il mobbing emozionale da quello strategico: il primo ha come motivazione aspetti legati a motivazioni personali quali invidie, cattivi rapporti mentre il secondo ha dei fini più strettamente lavorativi e finalizzati alla dimissione del lavoratore considerato per svariate ragioni indesiderato. Trattandosi di una forma di violenza con risvolti legali, affinché si possa parlare di mobbing è necessario che i comportamenti lesivi oltre che compiuti sul posto di lavoro debbano essere caratterizzati da una frequenza non casuale, durare per almeno sei mesi, seguire una pianificazione ed avere un intento persecutorio esplicito. Molti ricercatori hanno elaborato delle fasi del mobbing; nonostante le differenze tutti i modelli fanno riferimento a comportamenti rilevati anche dalla Cassazione in ambito giuridico quali calunnie, marginalizzazioni, esclusione da incarichi oppure affidamento di incarichi per la quale il lavoratore non è qualificato, pressioni, offese; l'elenco non è esaustivo. Gli studi non evidenziano differenze significative di genere ne tra i mobber ne tra i mobbizzati; anche lo status sociale ed economico non sembra al momento un fattore rilevante. Le conseguenze del mobbing ricadono quasi esclusivamente sulla persona che subisce (in parte anche l'azienda ne paga dei costi in termini economici) che facilmente incorre in problemi di salute, sia fisica che psicologica, problemi economici ed anche relazionale. Come tutte le persone vittime di violenza, la persona mobbizzata può vedere modificare la propria immagine e la valutazione che ha di sé; può quindi sviluppare sindromi ansiose e o depressive la quale necessitano di interventi specialistici. In Psicologia è sempre più sviluppato l'interesse per la personalità della vittima di mobbing focalizzando l'attenzione su alcuni aspetti controversi. Infatti non sono rari i casi di persone vittime di mobbing che avevano già in passato subito atti di bullismo; se ad una lettura banale e superficiale questo dato potrebbe far propendere per qualche fantomatica colpa della vittima, in realtà, nel caso il collegamento fosse confermato, questo fornirebbe delle indicazioni molto significative agli Psicologi che svolgono ricerche in merito la personalità ed il suo percorso evolutivo.

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