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Michele Passarella

Michele Passarella

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l'aggressività

La violenza non è cosa nuova sulla scena dell'umanità; a giudicare dal numero di persone che muoiono di morte violenta gli esseri umani pare siano più propensi ad usare le proprie acquisizione non per controllare o ridurre la propria aggressività ma piuttosto per perfezionare gli strumenti atti ad azione violente. Molti Psicologi concordano nel definire questo comportamento come l'insieme di azioni dirette a colpire uno o più individui tali da infliggere loro sofferenze fisiche o psicologiche. Alcuni Psicologi tendono a distinguere inoltre quella strumentale, quando l'atto è un mezzo per giungere ad un altro fine (come ad esempio comportamenti lesivi verso gli altri durante la fuga da una situazione percepita come pericolosa) da quella ostile quando l'aggressività è fine a se stessa. Come per tutti gli aspetti del comportamento umano da molti anni si discute sulla natura biologica oppure se è l'educazione e l'ambiente a determinare le componenti aggressive della personalità umana e come tutte le altre caratteristiche della specie umana entrambe le componenti hanno un ruolo in merito. Nonostante questa precisazione molti ricercatori sottolineano che gli esseri umani nascano con la predisposizione biologica al comportamento aggressivo ma che sia l'apprendimento sociale il fattore preponderante soprattutto nel determinare come e quando l'aggressività si manifesti; contribuiscono infatti al suo manifestarsi particolari condizioni emotive quali la frustrazione, l'ira e l'ostilità spesso determinati dall'ambiente fisico e sociale nella quale le persone si relazionano. Molto eloquenti in merito sono anche le ricerche svolte negli Stati Uniti nella quale venne dimostrato che la presenza di armi negli ambienti aumentasse la carica aggressiva anche senza che i presenti potessero realmente accederne per l'uso. Anche il famoso esperimento del pupazzo Bobo elaborato  dal celebre Psicologo Canadese Albert Bandura evidenziano come gli aspetti sociali e di apprendimento siano fortemente correlati all'aggressività. Fin da quando l'uomo si è organizzato in gruppi, contenere le forme di comportamenti lesivi o potenzialmente tali è sempre stata una priorità. Se la prevenzione e la soppressione dei comportamenti aggressivi sul piano sociale sono le principali metodiche utilizzate è necessario sottolineare come questo sia argomento estremamente complesso e sulla quale le possibili soluzioni sono molteplici e non lineari. Sul piano individuale la possibilità di intervenire in merito è più agevole: come tutte le emozioni negative, verbalizzare i propri stati psicologi può lenire l'intensità delle reazioni comportamentali; anche la possibilità di incanalare la propria aggressività verso attività fisiche più o meno intense può indirizzare verso una catarsi e dunque ridurre la propria reattività. Le ricerche hanno dimostrato che gli essere umani e gli animali modificano il loro comportamento per assicurarsi ricompense ed evitare punizioni; gli Psicologi hanno ripetutamente mostrato come i premi siano di gran lunga più efficaci delle punizioni per ridurre i comportanti aggressivi evidenziando come l'educazione dei genitori e degli insegnanti incide molto su questa specifica condotta dei figli: queste ricerche suggeriscono probabilmente il miglior metodo per ridurre od evitare comportamenti lesivi.

Dr Michele Passarella

Eventi traumatici e vita quotidiana

Nel corso della propria esperienza di vita, ognuno di noi deve fare i conti con esperienze negative, spesso inattese ed imprevedibili che causano malessere ed incidono negativamente sulla qualità di vita; molte persone vivono come traumatica la perdita di una persona cara, la cessazione di un rapporto sentimentale oppure lavorativo; quest'ultimo, così come il pensionamento, può rivelarsi particolarmente doloroso inducendo in ogni caso sensazioni di forte tristezza ed ansia. Un evento si rivela traumatico quando si inserisce in maniera pervasiva nel flusso di coscienza interrompendo la funzione narrativa di sé, aspetto quest'ultimo strettamente correlato al senso di identità con conseguente abbassamento di autostima, percezione di vulnerabilità, aspettative negative verso il futuro. Questi eventi per quanto sgradevoli sono parte della vita quotidiana e pur con molta sofferenza generalmente riescono ad essere superati grazie alle capacità di resilenza della persona, del supporto sociale ottenuto, esperienze positive ed opportunità ricevute. Purtroppo, alcune persone nel corso della propria vita si ritrovano ad affrontare esperienze estremamente gravi e traumatiche che inducono reazioni psicologiche di grave sofferenza con conseguenze drammatiche per la propria vita. Sono un esempio gli incidenti stradali, le catastrofi naturali, le violenze sessuali o fisiche, venir coinvolti in rapine od attentati, l'assistere come civili o militari ad operazioni di guerra e tutti quegli eventi nella quale la persona vede la propria incolumità fisica e o psicologica violata; queste conseguenze sono particolarmente amplificate se accadono durante l'età dello sviluppo. Le persone vittime di questi eventi sviluppano presto gravi sintomi psicologici, quali insonnia, incubi e flashback dell'evento traumatico, ansia e depressione, depersonalizzazione, isolamento sociale ed altri segni che, oltre ad incidere sulla vita familiare e lavorativa (per i minori possono esserci gravi deficit nello sviluppo psichico e della personalità), possono portare anche all'abuso di alcol od altre sostanze nonché al  suicidio. Questi sintomi sono generalmente classificati come "Reazione da Stress", se cessano entro alcuni mesi dall'evento oppure "Disturbo Post Traumatico da Stress" (DPTS) se si manifestano successivamente l'evento e si rivelano perduranti nel tempo rischiando la cronicizzazione. Per quanto queste manifestazioni comportamentali siano state spesso osservate, solo dopo la Prima Guerra Mondiale vi è stata una presa di coscienza di questi fenomeni. I soldati reduci dal fronte svilupparono segni mai affrontati prima dalla scienza medica mentre negli eserciti molti ufficiali sostenevano che i militari fingessero per evitare di tornare al fronte portando anche a casi drammatici di fucilazione per diserzione. Dopo la guerra vi fu anche una diatriba tra Psichiatri e Psicoanalisti; entrambe le parti denigravano e sminuivano i colleghi ma sia gli uni che gli altri fallirono totalmente nel trattamento dei traumi e nella cure delle persone portatrici. Nel corso degli anni si sono accumulate notevoli conoscenze sulle conseguenze degli eventi traumatici; ad esempio oggi sappiamo che i traumi psicologici possono portare lesioni anche a livello fisiologico, sia cerebrali che cardiaci. Alcune ipotesi, supportate della ricerca, sostengono che questi eventi  vengano registrati nella memoria non dichiarativa; gli spam della memoria non dichiarativa sono prevalentemente iconici e non verbali e questo renderebbe estremamente difficile verbalizzare gli stati emotivi e spiegherebbe  anche i continui flashback; va anche sottolineato che se nella letteratura e nella conoscenza popolare è molto conosciuto il concetto di rimozione, sappiamo che questo meccanismo psicologico dinnanzi ad eventi traumatici si rivela estremamente raro, se non del tutto inesistente.  Per gli Psichiatri e gli Psicoterapeuti il trattamento di questi  disturbi è una sfida particolarmente dura; come tutte le condizioni psichiche complesse si rivela indispensabile sia la somministrazione di farmaci psicoattivi sia una psicoterapia;  in merito alla psicoterapia, al fianco di metodi più tradizionali e collaudati negli ultimi anni all'interno della Terapia Cognitivo Comportamentale si è sviluppato un nuovo approccio definito "desensibilizzazione e riabilitazione attraverso movimenti oculari"; questa tecnica utilizzata prevalentemente per il trattamento dei reduci di guerra statunitensi appare al quanto indicato e si dimostra molto promettente ma necessita ancora di approfondimenti poiché si tratta di una psicoterapia complessa e complicata non facile da eseguire: necessita dunque di terapeuti  esperti nonché utenti notevolmente motivati e collaborativi.

Dr Michele Passarella

Psicologia e scuola

Da alcuni anni si parla sempre più insistentemente di istituzionalizzare all'interno della scuola italiana la figura dello Psicologo. Come spesso accade, attorno alla categoria psicologi si generano opinioni contrastanti ma sopratutto frutto della cattiva conoscenza della figura in questione; osserviamo infatti alcune obiezioni in merito allo Psicologo Scolastico molte delle quali però derivate da stereotipi e pregiudizi. Innanzi tutto è utile sottolineare che lo Psicologo non si relaziona agli studenti, così come a qualsiasi altra persona, con l'intenzione di valutare e diagnosticare patologie psichiche; va anche precisato che questi non si propone per sostituirsi oppure giudicare l'operato degli insegnanti. Lo Psicologo Scolastico ha come obiettivo principale quello di favorire il benessere psicofisico degli studenti e degli insegnanti; promuove la motivazione allo studio e la percezione di autoefficacia, favorisce il processo di orientamento dello studente in merito lo studio e o il lavoro, favorisce il dialogo tra studenti e corpo insegnanti nonché insegnanti e famiglie. Lo Psicologo opera anche per prevenire il disagio evolutivo e l'abbandono scolastico, favorisce la conoscenza individuale, favorisce la comunicazione efficace e si occupa di formazione su tematiche importanti come ad esempio l'educazione sessuale, il bullismo, le sue possibili cause e le sue conseguenze nonché come relazionarsi con coloro che emettono comportamenti violenti o potenzialmente tali. Questi obiettivi sono raggiungibili attraverso gli strumenti tipici dell'operato dello Psicologo su tutti quello dell'ascolto; attraverso colloqui individuali viene offerto agli studenti un momento privato dove essere accolti incondizionatamente ed ascoltati senza giudizi; nel corso dei colloqui allo studente vengono offerti inoltre spunti per stimolare il processo di problem solving al fine di elaborare  strategie per affrontare problemi relazionali o scolastici. I colloqui possono essere anche di gruppo, come ad esempio la classe, nella quale affrontare problemi interni nonché problemi di comunicazione con gli insegnanti. Su richiesta della famiglia o dello stesso studente lo Psicologo può intervenire al fine di una valutazione per individuare eventuali problemi psicologici il cui eventuale trattamento dovrà essere demandato a Medici o Psicoterapeuti operanti al di fuori della struttura scolastica. L'operato dello Psicologo è ovviamente vincolato alla motivazione ed alla collaborazione dello studente e dell'istituzione scolastica in generale; attualmente, mediante progetti, molti Psicologi operano già all'interno delle scuole tramite sportelli d'ascolto; l'Ordine degli Psicologi ha sottoscritto un accorgo con il MIUR a riguardo mentre l'Unione Europea già nel 2004 ha regolamentato la presenza e l'operato degli Psicologi nelle scuole.

Dr Michele Passarella 

L'altruismo

Nel corso della sua evoluzione l'essere umano ha compreso presto che la sopravvivenza individuale, e di conseguenza della specie, era vincolata alla capacità di collaborare tra i membri del gruppo ed in parte alla suddivisione dei compiti. La collaborazione tra individui era finalizzata prevalentemente alla sopravvivenza ed al soddisfacimento di bisogni elementari quali cacciare, educare la prole, individuare o costruire ripari dagli elementi atmosferici. La tendenza a collaborare tra individui non è mai venuta meno e nel corso dei secoli si è anche evoluta verso azioni orientate al bene sociale quale fare la carità, elargire favori, aiutare altre persone nello svolgimento di lavori e via dicendo. L'opposto di un comportamento di questo tipo è l'azione antisociale, che corrisponde ad un comportamento aggressivo, distruttivo ed egoista. Alcuni studiosi fanno uso del termine comportamento prosociale per sottolineare il contrasto con l'espressione comportamento antisociale; altri invece preferiscono il termine altruismo per mettere in rilievo l'elemento di sacrificalità implicito a diverse iniziative a carattere sociale: l'azione altruistica è diretta a beneficio di altre persone senza che ci si aspetti un riconoscimento esterno. Indipendentemente dal termine che si preferisce, l'azione orientata al bene sociale è qualcosa di molto coinvolgente e considerato di elevato spessore morale. Anche l'altruismo contribuisce alla sopravvivenza della specie ma questo non esaurisce la curiosità di coloro che si domandano cosa induce una persona a rinunciare a dei beni propri od anche a mettere in discussione il proprio benessere fisico per le altre persone; la ricerca in Psicologia ha condotto svariate ricerche individuando innanzitutto come le azioni altruistiche risultano gratificanti per coloro che le compiono. Molte iniziative altruistiche solo apparentemente sono frutto dell'abnegazione e non sempre chi dà aiuto lo fa perchè pensa al benessere degli altri. La Psicologia suggerisce diverse spiegazioni, in sintesi possiamo individuare tre ragioni: biologiche, neurologie e psicologiche. La spiegazione biologica si riferisce, come già detto, alla preservazione della specie: potremmo essere più altruisti nei confronti dei nostri consanguinei poiché aumentano le probabilità di sopravvivenza dei nostri geni da trasmettere alle generazioni future. Secondo questa prospettiva perciò saremmo più propensi all’ altruismo nei confronti di parenti piuttosto che ad altre persone. La spiegazione neurologica sostiene che l’altruismo attiva i centri della ricompensa nel cervello; le ricerche in merito  hanno scoperto che quando si è impegnati in un atto altruistico i centri del piacere del cervello diventano attivi. La spiegazione psicologica sostiene che l’altruismo si aziona senza necessità che chi la emette si aspetti alcuna ricompensa ma si potrebbero nascondere degli incentivi cognitivi che non sono del tutto evidenti. Ad esempio, potremmo aiutare gli altri ad alleviare le loro sofferenze perché essere gentili con gli altri sorregge la visione che abbiamo di noi stessi; anche l'aspettativa di ricevere in cambio favori divini oppure guadagnarsi una vita extraterrena dopo la morte può essere alla base della motivazione del comportamento prosociale. Il sentirci empatici ci fa sentire bene e questo rappresenta un potente rinforzo all'emissione dei suddetti comportamenti; le ricerche suggeriscono inoltre che dalle proprie buone azioni gli individui sviluppano la capacità di compensare se stessi e le proprie carenze. Queste considerazioni ci suggeriscono che l'altruismo si sviluppa nel corso della nostra vita e sopratutto nell'età evolutiva: i bambini imparano che un'azione altruistica è una azione buona e che se si comportano in modo altruistico essi stessi sono buoni.  La ricerca in Psicologia evidenzia dunque come molti comportamenti prosociali sono dettati dalla ricerca di premi e rinforzi di vario genere: questo però non deve sminuire i comportamenti altruistici ma stimolarci ad impegnarci in tali comportamenti ed ad educare bambini, giovani ed adulti ad emetterli ed intensificarli.

Dr Michele Passarella

Il pensiero ossessivo

Il termine ossessione è entrato da tempo nel gergo comune ma, come spesso accade, molte volte è utilizzato in maniera errata come ad esempio per enfatizzare un interesse oppure in maniera del tutto inappropriata per descrivere comportamenti non condivisi da eventuali osservatori. Ossessione è un termine che deriva dal latino obsidere e significa assediare, bloccare; esso si riferisce a pensieri che ricorrono in maniera persistente, iterativo ed automatico e che causano disagio marcato nelle persone che li sperimentano i quali non sono in grado di controllarli e soprattutto farli cessare; le ossessioni includono idee, pensieri, ragionamenti percorsi dal dubbio, immagini prevalentemente sgradevoli e fortemente disturbanti, ricordi o impulsi senza un nesso ricollegabile ad uno stimolo esterno. Un pensiero ossessivo va distinto dalle preoccupazioni che accompagnano stati di ansia in maniera particolare se causati da una situazione particolarmente stressante. Una delle caratteristiche dei pensieri ossessivi sono l'intrusività e la ripetitività che inducono in chi li esperisce grave sofferenza emotiva, difficoltà relazionali e compromissione delle capacità lavorative. A fungere da aggravante al pensiero ossessivo sono i comportamenti ad esso associati noti come compulsioni; secondo i dati epidemiologici oltre il 70% delle persone che sperimentano pensieri ossessivi manifestano anche comportamenti compulsivi; quest'ultimi sono comportamenti, come ad esempio controllare e ricontrollare un oggetto, lavarsi, allineare e riordinare ripetutamente gli stessi oggetti messi in atto in maniera ripetuta, alle volte fino allo sfinimento fisico senza nessuna necessità. I pensieri ossessivi così come i comportamenti compulsivi sono ego distonici, termine tecnico per indicare la consapevolezza del proprio funzionamento mentale: le persone in questione sono perfettamente consapevoli della natura disturbante ed involontaria e spesso irrazionale dei propri pensieri e comportamenti ma, nonostante questo, non sono in condizione di interrompere la sequenza cognitiva e o comportamentale. Altro aspetto da sottolineare è la differenza tra i pensieri ossessivi ed i tratti di personalità ossessiva: i tratti di personalità ossessiva sono osservabili in tutti coloro che nel gergo comune sono considerati pignoli, molto attenti ai particolari ed attribuiscono alla precisione ed alla simmetria tra oggetti un certo valore. Le personalità ossessive, qual'ora non affetti da un disturbo di personalità ossessiva,  spesso sono caratterizzate da notevoli successi in ambito lavorativo poiché particolarmente affidabili e competenti. Quest'ultima affermazione è particolarmente in contrasto con il disturbo ossessivo poiché pensieri ossessivi e comportamenti compulsivi spesso riducono, come già detto, la capacità lavorativa delle persone che ne soffrono; anche per questo motivo il disturbo ossessivo e quello ossessivo-compulsivo sono considerati a tutti gli effetti condizioni debilitanti e, nei casi più gravi, invalidanti. Il disturbo si manifesta solitamente verso la fine dell'età adolescenziale; non vi sono differenze di genere mentre secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità circa il 2,5% della popolazione ne soffre pur con gravità e compromissione funzionale molto diversa. Il trattamento del disturbo ossessivo è particolarmente complesso e la remissione della patologia dipende dalla gravità della condizione nonché dalla precocità del trattamento. Studi di efficacia rilevano come le compulsioni siano più facilmente trattabili rispetto ai pensieri ossessivi; come per tutti i disagi psichici particolarmente pervasivi è opportuno un intervento combinato di psicofarmaci e psicoterapia praticato sia ambulatorialmente che, nelle fasi particolarmente critiche, all'interno di strutture residenziali specializzate.

Dr Michele Passarella

mindfulness

A Psicoterapeuti e cultori della materia non sarà sfuggito come negli ultimi anni Aaron Beck, Psicoterapeuta di fama mondiale, abbia incontrato più volte il Dalai Lama e come quest'ultimo abbia esposto il proprio pensiero in svariati congressi di Psicoterapia. Questi incontri non sono occasionali ma la conseguenza logica dell'incontro di alcune scuole di pensiero psicologiche con l'insegnamento del Buddha pur mantenendo la propria natura laica, soprattutto nella declinazione dallo stesso Beck nota appunto come approccio razionalista. Il punto di incontro tra queste due scuole di pensiero apparentemente così distanti è rappresentato dalle pratiche meditative e nello specifico dalla Mindfulness. Nonostante già millenni prima della nascita di Cristo esistessero pratiche meditative analoghe, quello che oggi identifichiamo come Mindfulness è iniziato circa 2500 anni fa ad opera appunto del Buddha; il Maestro sottolineava la necessità di esercitarsi nel "sati" termine che indicava uno stato mentale, particolare ed intenzionale che prevede un'attenzione focalizzata sul momento presente, una piena consapevolezza ed un contatto con se stessi. Il concetto appena esposto si lega in maniera particolare con alcuni assunti di base dell'approccio cognitivista che ha sempre sottolineato l'influenza degli stati di pensiero sui comportamenti e sulle emozioni. Negli ultimi anni dunque ha preso vita una Psicoterapia basata sulla Mindfulness: in estrema sintesi questo approccio terapeutico sostiene la necessità di apprendere ad osservare in maniera non giudicante il flusso di pensieri alla quale siamo costantemente esposti con la conseguenza di non rimanere invischiati nei pensieri, emozioni e sensazioni corporee vissute; di focalizzare ed utilizzare le proprie energie mentali nel presente e non verso un passato che non può essere cambiato ne tanto meno verso il futuro che altro non è che la conseguenza del presente.  Affiancare al lavoro Psicoterapeutico il training di Mindfulness è attualmente utilizzato con notevole profitto in molte problematiche sia di natura psicopatologica, come ad esempio depressione, stati di ansia, depersonalizzazione ed altre sintomatologie, sia per la gestione dello stress alla quale siamo costantemente esposti. Gli studi di ricerca sono particolarmente attivi per dimostrarne gli effetti benefici e giustificarne l'uso in alternativa ad altri trattamenti già noti e collaudati. Molti Psicologi impegnati in studi di neuroimmagine hanno dimostrato come la Mindfulness, proprio come la Psicoterapia, tende a stimolare la plasticità neurale (le modifiche a livello neurale sono la base scientifica della ricerca sull'efficacia della Psicoterapia); questi risultati sono alquanto incoraggianti ma necessitano di ulteriori approfondimenti. La mindfulness è una tecnica meditativa e come tale viene praticata anche da sola e non abbinata ad un percorso psicoterapeutico; ovviamente questa tecnica da sola non può sostituirsi ad un percorso di cura (così come le altre tecniche meditative e le tecniche di rilassamento) ma i benefici ottenuti sono sempre apprezzabili.

Dr Michele Passarella

Emozioni di base e sopravvivenza

Le emozioni di base sono così definite dalla Psicologia in quanto non mediate da fattori culturali e di conseguenza sono esperite e manifestate universalmente dagli esseri umani. Tra le emozioni di base annoveriamo anche la paura ed essa rappresenta una di quelle esperienze negative vissute, in maniera diversa e per motivi diversi, da ogni individuo.  Per quanto sgradevole la funzione di questa emozione è assolutamente vitale in quanto rappresenta un sistema primario di difesa provocata da una situazione di pericolo sia esso stimolato da una situazione reale, oppure anticipata da una previsione, evocata da un ricordo ma anche prodotta da una fantasia. La paura è solitamente accompagnata da una reazione organica, mediata dal sistema nervoso autonomo, che prepara l'organismo ad una situazione di emergenza disponendolo, in maniera aspecifica, all'apprestamento delle difese che si traducono in comportamenti funzionali alla situazione alla quale si è esposti; le più tipiche ed elementari reazioni alla paura sono la fuga oppure la lotta. La paura oltre a svolgere una funzione di protezione individuale assume anche un ruolo sociale mediante indicatori comunicativi non verbali universali con la funzione di avvisare altri membri del gruppo della presenza di un pericolo o potenziale pericolo, al fine di creare allarme oppure richiedere soccorso. La paura solitamente è caratterizzata da una reazione psicofisica intensa ma non particolarmente lunga e si configura come stabile nel tempo; l'intensità di uno stato di paura può variare da un lieve disturbo percepito solitamente come ansia fino a reazioni di panico nella quale l'emozione diviene ingovernabile con reazioni psicofisiche estreme; solitamente il grado di intensità è strettamente correlato alla valutazione cognitiva che viene data alla situazione alla quale si è esposti: la valutazione, ovviamente, può essere condizionata da esperienze passate proprie o di persone conosciute. Tecnicamente la paura va differenziata dalla fobia, termine spesso utilizzato erroneamente come sinonimo. La Fobia si contraddistingue come reazione di paura estrema, spesso immotivata ed irrazionale; la fobia è una manifestazione clinica che può avere anche conseguenze invalidanti per la persona affetta e dunque richiede un trattamento clinico, sia esso psicoterapeutico o farmacologico. Oltre al ruolo determinante sul piano della tutela individuale, si evince che è impossibile non avere mai paura anche e soprattutto quando si è bambini; in termini educativi sappiamo quanto sia disfunzionale nell'età dello sviluppo  rimproverare i bambini in merito alle paure che manifestano; appare utile, oltre alle ovvie rassicurazioni, aiutare i bambini ad accettare di avere paura in modo tale da  non colpevolizzarli ed indirizzarli verso una buona gestione di questa emozione sia nell'età infantile che in quella di adulto. Un adulto può scegliere di superare una propria paura oppure conviverci purché questa scelta avvenga in maniera consapevole e ragionata.

Dr Michele Passarella

L'empatia

L'empatia è una delle capacità mentali maggiormente implicate nelle relazioni interpersonali e nei processi comunicativi in generale; secondo le ultime ricerche della Psicologia il 98% delle persone posseggono questa capacità; si ipotizza che la restante percentuale sia composta da persone affette da svariate forme di disagio mentale che ne impedirebbe lo sviluppo. Il termine deriva dal greco en-pathos che significa sentire dentro; sinteticamente può essere  definita come la capacità di immedesimarsi in un'altra persona al fine di cogliere i pensieri e le emozioni calandosi nella realtà altrui. In virtù del fondamentale ruolo che ricopre nella comunicazione interpersonale molti Psicologi ritengono che questa capacità si sia sviluppata secondo i principi della selezione naturale con evidenti fini di adattamento e sopravvivenza della specie. E' utile ricordare la differenza tra empatia e compassione: quest'ultima infatti si riferisce in maniera specifica e circoscritta alla partecipazione emotiva del dolore altrui. Come già detto, L'empatia è implicata in maniera pervasiva nei processi comunicativi inducendo coloro i quali riescono ad entrare in contatto emotivo con gli altri a comprendere in maniera più efficace il significato dell'atto comunicativo. In base a quanto appena affermato appare facilmente intuibile come i processi empatici siano alla base di processi fondamentali quali l'educazione nell'infanzia nonché l'insegnamento nelle scuole; i processi diagnostici e terapeutici in medicina, favorisce inoltre il clima relazionale sia sui posti di lavoro che nelle relazioni amicali e famigliari. Nel corso dei decenni in Psicologia si è svolto un dibattito molto proficuo sulla natura dell'empatia; a differenza di quanto a lungo sostenuto il processo empatico non coinvolge solo la sfera emotiva ma anche, e  secondo alcuni ricercatori sopratutto, la sfera cognitiva. L'empatia infatti necessita non solo di processi percettivi ma anche valutativi dei contenuti, verbali e non verbali, della comunicazione; oltre ai processi valutativi sono inoltre coinvolti anche processi di memoria e immaginativi senza la quale risulterebbe impossibile empatizzare con gli altri. L'empatia si sviluppa approssimativamente a cavallo della prima e della seconda infanzia ed è condizionata dai processi di apprendimento stimolati dagli adulti e nella relazione con gli altri, questa capacità si può sviluppare anche tramite l'apprendimento per imitazione in particolare dei genitori. In Psicologia si dibatte ancora se l'empatia sia una abilità mentale oppure sia un vero e proprio tratto di personalità; sappiamo però dalle ricerche che l'empatia si può stimolare e/o sviluppare anche nell'età adulta, sia tramite dei veri e propri training mentali sia attraverso una più canonica nonché efficace Psicoterapia. Sviluppare una migliore capacità empatica infatti induce un miglioramento dei rapporti con il prossimo con una conseguente aumento della qualità di vita.

Dr Michele Passarella

La Schizofrenia

La schizofrenia rappresenta quella condizione mentale, palesemente patologica, che più di ogni altro aspetto della mente umana ha attirato interesse, polemiche, scontri ideologici all'interno della medicina psichiatrica e non solo. Per secoli, prima che la Medicina cominciasse ad occuparsi scientificamente delle patologie mentali, coloro che manifestavano i sintomi della malattia venivano considerati indemoniati e dunque sottoposti a trattamenti quali esorcismi ed altri riti esoterici che raramente sortivano gli effetti desiderati; le persone affette da questa malattia finivano così a vivere reclusi in condizioni di vita pessime anche a causa dello stigma sociale che li accompagnava. Il superamento della visione esoterico-religioso della schizofrenia è coinciso non solo con l'abbandono delle suddette pratiche curative ma anche con la nascita all'interno della Medicina di una branca specialistica quale la Psichiatria. Inizialmente la schizofrenia fu considerata una forma di demenza precoce; solo agli inizi del diciannovesimo secolo si giunse alla considerazione attuale e venne coniato il nome schizofrenia, dal greco schizein ovvero rompere, frammentare, per sottolineare gli aspetti dissociativi della mente di coloro che ne sono affetti. Nel corso dei decenni si sono succedute moltissime teorie e scuole di pensiero in merito alle cause della malattia; alcuni ricercatori ne sottolineavano gli aspetti biologici ed organici, altri gli aspetti sociali ed il ruolo dei genitori ed in particolare la madre nell'insorgenza della malattia. Oggi, pur essendo stato superato il concetto errato e fortemente discriminatorio di "madre schizofrenogenica" elaborato e sostenuto con livore  dalla psicoanalisi, in realtà non si hanno ancora conoscenze definitive sulle cause della schizofrenia; come molti altri aspetti del comportamento umano e del funzionamento mentale, l'approccio bio-psico-sociale ha lenito gli scontri ideologici proponendo una mediazione tra posizioni organiciste e posizioni ambientaliste; la ricerca sulle cause della schizofrenia è molto attiva e sta portando a nuove conoscenze e consapevolezza in merito. Pur sottolineando l'individualità delle persone che ne soffrono, la malattia in questione solitamente insorge verso la fine dell'adolescenza anche se i sintomi prodromici possono manifestarsi già nelle età precedenti. I sintomi, pur variando da persona a persona, solitamente si manifestano con isolamento sociale, deliri, allucinazioni, ansia, comportamenti bizzarri, deficit attentivi e nella capacità decisionale, apatia e perdita di volizione: a differenza di quanto molti pensano, fuorviati alle volte dalla letteratura e dal cinema, una delle caratteristiche della schizofrenia è la sofferenza emotiva acuta e difficilmente gestibile da chi ne soffre; alcune ricerche epidemiologiche evidenziano come il suicidio sia tra le principali cause di morte nelle persone afflitte dalla patologia in questione. La malattia ha un andamento cronico e debilitante; una persona affetta da schizofrenia raramente è in grado di provvedere a se stesso in molte delle attività quotidiane e dunque necessita di assistenza continua. Oltre alle manifestazioni cliniche questa malattia è spesso aggravata dallo stigma sociale che proprio come nei secoli passati, continua ad essere presente anche se manifestato in maniera differente. Altro aspetto da sottolineare è la condizione della famiglia delle persone affette da schizofrenia, i quali oltre a subire a loro volta lo stigma, spesso sono impegnati in una assistenza gravosa e particolarmente stressante del loro congiunto. In Sud America e successivamente in Europa si sono creati dei gruppi di supporto alle famiglia, i gruppi multifamigliari, che stanno portando dei risultati apprezzabili sia sulla qualità di vita all'interno delle famiglie che nei portatori stessi della malattia. Pur trattandosi di una malattia cronica rispetto al passato oggi si è giunti ad un buon contenimento della patologia: in merito al trattamento i farmaci di nuova generazione stanno portando risultati apprezzabili nella gestione dei sintomi; ai trattamenti farmacologici è sempre opportuno affiancare una Psicoterapia la quale oltre ad offrire un ascolto alla sofferenza della persona propone una modifica dei pensieri e dei comportamenti finalizzati all'incremento del funzionamento individuale e della qualità di vita. 

Dr Michele Passarella

La percezione

Parlare di percezione non è mai semplice poiché si tratta di una delle facoltà psichiche più complesse e difficili non solo da studiare in termini scientifici ma anche da concettualizzare adeguatamente. Lo studio di questa funzione mentale ha avuto inizio con la nascita della Psicologia stessa; molti dei laboratori di Psicologia nelle università europee hanno avviato le proprie attività di ricerca con lo studio della percezione. A questo si aggiunge che la nota e secolare diatriba tra innatismo ed empirismo trova nelle ricerche sulla percezione risultati a favore di entrambe le posizioni, motivo di aspri dibattiti tra esponenti di scuole psicologiche diverse. In sintesi la percezione può essere definita come l'insieme di funzioni psicologiche che permettono all'organismo di acquisire informazioni circa lo stato ed i mutamenti del suo ambiente grazie all'azione di organi e sensi specializzati quali vista, udito, olfatto, gusto e tatto. Attraverso la percezione è inoltre possibile raccogliere informazioni sullo stato del proprio corpo tramite la sensibilità propriocettiva ed interocettiva.  Per quanto i due concetti siano estremamente collegati e correlati tra di loro, la percezione si distingue dalla sensazione in quanto quest'ultima si riferisce a dati elementari della conoscenza che non posso essere scomposti in elementi più semplici mentre la percezione è un processo più complesso che unifica una molteplicità di sensazioni. E' da sottolineare come alcuni ricercatori, una minoranza, ritengono che questa distinzione sia impossibile e dunque percezione e sensazione sono due processi psicofisiologici inseparabili. In attesa che la ricerca porti ad  una maggiore conoscenza sulla connessione tra fenomeni psicologici e fenomeni fisiologici oggi possiamo affermare che la percezione rappresenta il punto di incontro tra psiche e corpo. La funzione principale di questa facoltà mentale è quella di entrare in contatto con il mondo esterno ed interno e conoscerlo ai fini dell' adattamento e della modifica in base alle necessità oggettive o soggettive. Sulla percezione, come già accennato, si sono concentrati gli sforzi di moltissimi Psicologi generando molteplici teorie, leggi e conoscenze in generale. Una delle principali nozioni acquisite in Psicologia riguarda il ruolo della struttura della personalità e del contesto sociale in cui la percezione avviene. Esistono personalità maggiormente sensibili alle differenze che emergono nel campo percettivo, gli accentuatori, e personalità meno sensibili, i livellatori. I primi a differenza dei secondi tendono a percepire gli stimoli in maniera più accentuata; è possibile che queste persone tendano ad una maggiore chiusura al mondo esterno per evitare che il proprio sistema percettivo venga iperstimolato. Sempre nel campo del rapporto tra percezione e differenze individuali gli Psicologi distinguono i soggetti dipendenti dal campo, ovvero coloro che poggiano la loro percezione esclusivamente sui dati offerti dai propri sensi, e soggetti indipendenti dal campo i quali fanno maggiore riferimento alla posizione del proprio corpo nel contesto in cui si trovano. In ambito percettivo il contesto sociale agisce su due livelli: ciò che è percepito e percezione interpersonale. Gli esperimenti hanno dimostrato che un individuo muta le proprie percezioni quando è inserito in un contesto nella quale i membri presenti percepiscono diversamente gli stimoli sensoriali tendendo di conseguenza a conformarsi al gruppo. Gli Psicologi hanno inoltre individuato come quest'ultimo fattore sia fortemente legato al sistema culturale di riferimento, evidenziando come la percezione sia condizionata dai rapporti interpersonali, dall'educazione ricevuta e dalle aspettative dei soggetti in causa.

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