GLI ALIMENTI DEL FUTURO CHE NON VORREMMO – FONTI ALTERNATIVE DI PROTEINE
L’aumento demografico senza precedenti che ha interessato la popolazione umana nell’ultimo dopoguerra (parliamo di circa 70 milioni di persone in più all’anno) e che non accenna a diminuire, tenderà a far aumentare inevitabilmente sempre più il numero di persone malnutrite o denutrite.
Di qui nasce l’interesse per le fonti alternative di proteine, ovvero polipeptidi che non derivano dalle tradizionali fonti vegetali o animali, ma da altri organismi come microbi o alghe.
Alcuni lieviti del genere Torula crescono agevolmente su residui agricoli o scarti di lavorazione (melassi, etc.); una volta additivati con sali ammoniacali, possono fornire buoni quantitativi di proteine alimentari.
Già negli anni ’50 vennero fatti i primi tentativi di coltivare microrganismi, come ad esempio Candida lipolyitica, su substrati di natura idrocarburica. Questo tipo di produzione di proteine di origine microbica da derivati del petrolio ha suscitato polemiche e problematiche non indifferenti: è infatti possibile che alle cellule del microrganismo aderiscano piccole quantità di idrocarburi ritenuti potenzialmente cancerogeni. Fortunatamente le ricerche successive hanno sancito la caratteristica imprescindibile dell’assenza di agenti patogeni o tossici, come garanzia indispensabile all’uso di tali proteine come alimento.
Interessante è invece la coltivazione di alcune alghe verdi microscopiche, come Chlorella, Spirulina e Scenedesmus. Le loro esigenze per crescere appaiono relativamente modeste, tenendo conto che non necessitano di grandi superfici da sottrarre alle tradizionali colture agrarie: acqua, anidride carbonica, ammoniaca e luce solare. In pratica, però, sorgono problemi complessi, in quanto in tali coltivazioni si producono facilmente inquinamenti, mentre difficoltoso appare un congruo apporto di luce solare, fortemente assorbita dalle alghe. Inoltre il sapore piuttosto sgradevole della farina verdastra che da esse si ottiene è un’altra difficoltà da superare, poiché psicologicamente la prospettiva di un’alimentazione con proteine microbiche o con alghe non entusiasma particolarmente il consumatore.
Da questo punto di vista un tentativo migliore è stato fatto con gli alimenti semisintetici.
Si parte da sostanze naturali che forniscono proteine meno nobili (soia, semi di cotone, etc.) e si trasformano profondamente, additivandole con le farine di origine microbica o algale cui facevamo precedentemente riferimento, fino a formare una densa pasta che viene poi passata in filiera in modo da ottenere fibre sottili che, opportunamente coagulate, possono assumere forme particolari. L’aggiunta di grassi, aromi sintetici che forniscono i sapori più vari, coloranti, etc. permette di ottenere tritati che possono essere confezionati per il consumatore finale nelle forme più familiari di polpette o salsicce…
Il sapore e la sensazione di mangiare un materiale proteico fibroso rendono tali alimenti più appetibili, nella misura in cui sarà possibile, e francamente ci chiediamo quanto opportuno, superare le fondate remore di coloro che praticano una cultura alimentare, fatta di genuinità e semplicità, come la dieta mediterranea.
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