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Daniele Nardiello

Daniele Nardiello

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Scorpacciata di panettoni

Con puntuale inesorabilità arrivano le festività natalizie e in questa atmosfera stucchevole proliferano le produzioni cinematografiche pseudo-comiche, avanguardie nazional-popolari della benemerita commedia all'italiana.
Per comodità espositiva, abbiamo mietuto in un sol fascio i quattro film che hanno riempito negli ultimi giorni le sale italiane,  rimpinzandole di grossolane leccornie e di grasse facezie.
Cominciamo da "Un Boss in Salotto", interpretato del nostro conterraneo Papaleo, praticamente una macchietta dagli
occhi a palla e dal rutto libero, che si limita però a fare da contrappunto ad una splendida Paola Cortellesi, donna di gran classe e fine dicitrice, sicuramente pronta per prove ben più impegnative. Il film ha un ritmo lento e altalenante, con molto maccheronismo condito di qualunquismo surreale. Ambientato in una opaca Terra di Mezzo Nord, restituisce un'immagine offuscata di ipocrisia e senso di falso riscatto sociale. Avevamo gradito ed applaudito quasi con una punta di commozione "Una piccola impresa meridionale", Rocco ci aspettiamo di meglio da te, sappiamo che puoi farcela. Voto 5 (Cortellesi 8, Argentero n.c.).
Prosegue il menu delle feste con "Indovina chi viene a Natale". Abatantuono interpreta il fratello maggiore di una strampalata nidiata di soggetti eterogenei. Peccato che il grande (principalmente in senso fisico) Diego non abbia ancora deciso da che parte stare.
Come comico non è riuscito ad andare oltre le storpiature tardo-meridionalistiche del "terrunciello" di Eccezziunale Veramente, ma ha avuto la fortuna di incontrare quei mostri sacri che rispondono al nome di Pupi Avati e Gabriele Salvatores, i quali sono riusciti ad  esaltare una sua certa valentia drammatica. Peccato che Diegone non abbia ancora imparato del tutto la lezione dei Maestri e puntualmente continui ad indulgere a particine disimpegnate in film di scarso peso. Piuttosto viene da chiedersi perchè si continuano a produrre pellicole di finte famiglie, ad uso e consumo di famiglie intontite... A questo punto non possiamo che rinnovare il nostro apprezzamento per Checco Zalone, che riesce ancora a regalarci una comicità sicuramente di timbro cafonal, ma anche originale, fresca ed imprevedibile, anche se giocata sul noto terreno del quotidiano, con le sue crisi economiche e sociali.
Per tornare alla commedia diretta da Fausto Brizzi, salviamo soltanto la parte interpretata da Raoul Bova, abbastanza simpatico e credibile nella parte del diversamente abile, che regge nei suoi piedi prensili le esili fila della narrazione, che neppure il cameo di Gigi Proietti riesce a risollevare. Voto 5 (Bova 7, Finocchiaro 6).
Passiamo alla prossima portata, servendovi "Colpi di fortuna". Beh, c'è veramente poco da dire a questo riguardo.
Neri Parenti aveva iniziato splendidamente la sua carriera di regista e sceneggiatore, forte di un grandioso Paolo Villaggio e dei suoi geniali Fantozzi e Fracchia. Poi da quando ha sposato la redditizia causa del cine-panettone, è iniziato il suo lento declino verso il Gran Burrone della grossolanità, mondana e spudorata. Caro Christian De Sica, noi crediamo in te, ma ti preghiamo di ravvederti finchè sei in tempo. La puerilità scurrile di certa comicità da strapazzo puoi lasciartela alle spalle...
Letteralmente dulcis in fundo, abbiamo riservato alla fine di questo breve excursus il film di Pieraccioni.
Decisamente una bella commedia, con venature poetiche, come solo la garbata ma saporosa toscanità del protagonista-regista può offrirci. Una vera favoletta, servita con buon gusto goliardico tutto stile anni '80. Un pizzico di smarrimento dantesco e una  spruzzatina di spirito boccaccesco, a condire una pellicola che scorre senza vuoti narrativi e racconta in modo credibile le storie dei ventenni di oggi e di ieri, senza la benchè minima volgarità gratuita, neanche da parte del ragazzaccio Ceccherini.
Ci è piaciuta particolarmente la bella Marianna Di Martino, nel ruolo della studentessa Camilla, fuggita dalla Sicilia per nascondere l'ignominiosa gravidanza, ma che poi decide di affrontare con grande coraggio e sofferente determinazione.
Voto 7 (Pieraccioni 7, Autieri 6).

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Anche i ricchi piangono...

 

Maledetto Woody Allen...quando smetterai di tormentarci/ti con le tue elucubrazioni cervellotiche?!  Il grande genio umoristico, il mostro di creatività dove è finito?! Possibile che tu ti sia avviluppato nella tua stessa inestricabile rete?! Come mai ti sei imbozzolato nella larvata attitudine alla nevrosi provincial-metropolitana!?
Non ne possiamo più dei balbettii e delle insicurezze dei tuoi personaggi perennemente in crisi. Blue Jasmine è la patetica continuazione dello statico filone concettuale che hai, purtroppo, intrapreso con "Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni".
Sai cosa mi ha distolto dalla noia mortale e dalla pressante necessità fisiologica? 
Cate Blanchett. Lei è una meraviglia, un portento di matura avvenenza, una mostro di superiorità espressiva. Per tutta la durata del film la regale musa non fa altro che piangere, bere liquori e ingurgitare xanax, ma è grandiosa: dai suoi luminosi occhi azzurri ti sembra di intravedere la follia, il baratro più orrido del disagio esistenziale. Da Oscar, senza dubbio. 
Tutto il resto è noia, per dirla col Califfo. La trama è essenzialmente imperniata sul crollo dell'esistenza di Jasmine, che precipita dal benessere capriccioso di Park Avenue, per ritrovarsi in una sordida casa e una normalissima esistenza, fatta di lavori e persone monotone. È il dramma del disadattamento, una fucina amara che forgia il disincanto.
A furia di imbastire profonde riflessioni sul fenomeno chiamato "amore",  il film perde completamente il brio narrativo per scadere in una commedia patetica, con un finale decisamente tronco ed irrisolto.
Coraggio, puoi fare di meglio, provaci ancora, Sam!
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« La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. » (Giovanni Falcone)

Pierfrancesco Diliberti, in arte Pif, è al suo esordio come regista. Contemporaneamente dà una convincente prova di recitazione spontanea, in questa sua emozionante opera prima.

L’ex iena, sotto la forma del romanzo di posizione, descrive con limpidezza e candore il turbamento sociale e politico degli anni ’70-80, visto con gli occhi di un bambino, Arturo, a cui viene impartita una peculiare educazione sentimentale e civile.

Arturo viene concepito nel momento stesso che il boss Riina perpetra il suo primo efferato omicidio e nasce a Palermo lo stesso giorno in cui Vito Ciancimino, mafioso di alto lignaggio, viene stato eletto sindaco. Il film si impernia soprattutto su di una storia d’amore, e racconta i tentativi di Arturo di conquistare il cuore della sua amata Flora (la casta diva Cristiana Capotondi, bella, semplicemente intensa), una compagna di banco di cui si è invaghito alle elementari e che vede come principessa dei sogni e unico obiettivo di tutti i suoi sforzi. Attraverso questa tenero ma profondissimo escamotage narrativo, lo spettatore verrà coinvolto emotivamente negli eventi più tragici della nostra storia recente, siciliana ed italiana.

Arturo infatti è un ragazzo come tanti altri dell'Italia degli anni '70 ma, a differenza dei suoi coetanei del nord, è costretto a fare i conti con le costanti infiltrazioni e le terribili azioni criminose della mafia nella sua città. Assiste alle principali stragi di mafia, da Capaci a via D’Amelio, riesce persino ad intervistare il Generale Dalla Chiesa.

La consapevolezza di Arturo cresce anno dopo anno, ma nessuno lo ascolta, mentre matura la sua coscienza politica e sociale, all’ombra del suo mentore spirituale e paladino di giustizia e verità, nientepopodimeno che il divo Giulio Andreotti.

La Sicilia, come abbiamo noi stessi avuto modo di constatare in un nostro recente viaggio, è una terra intrisa di profonde contraddizioni, moderna ma inspiegabilmente involuta in certi suoi risvolti sociali,  aperta e spregiudicata ma nel contempo obliterata da arcane e ancestrali chiusure.

Nella controversa epoca contemporanea ci rendiamo conto di essere lontani dalle oscure origini della mafia, antico braccio armato della nobiltà feudale e latifondista, successivamente legato sempre più visceralmente alla politica siciliana. Una formula esiziale di dominio e protezionismo, esportata con l’immigrazione degli  anni ’20 anche negli USA, dove si tinge delle sanguinose tinte del racket e del narcotraffico.

Oggi il termine “mafioso” nei Paesi esteri si attaglia con discutibile qualunquismo a molte problematiche forme di aggregazione sociale italiana, facendo sembrare l’aggettivo “italiano” necessariamente un sinonimo di intrigo e condotta immorale.

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Il FESTIVAL DI POTENZA: 13a Rassegna Nazionale di Musica e Spettacolo

Pregustavo da mesi la nuova edizione del Festival di Potenza, e già questo costituisce una novità per uno come me, più avvezzo alle sale cinematografiche che alle atmosfere chiassose e rutilanti dei concerti. Attendevo con curiosità il prodotto del lavoro passionale e metodico del mio amico Mario Bellitti, Direttore Artistico di un progetto dell'Associazione Culturale "Mabel", composta da un gruppo qualificato di operatori dello spettacolo, con l'adesione dell'ASMEA (Associazione Spettacolo Management ed Artisti).

La chiara professionalità di cotanto patron ci ha dato modo di assistere, nella sublime ed austera cornice dell'Auditorium Conservatorio di Musica "Gesualdo da Venosa" di Potenza, ad uno spettacolo multiplex et varium, volutamente composito e poliforme, ma nel complesso sorprendentemente piacevole. La trama della kermesse era intessuta di tanti stili musicali e sorretta da una sapiente gradazione di talenti: cantanti, musicisti ed artisti debuttanti, esordienti, o da tempo affermati. Abbiamo applaudito cover di canzoni famose, momenti di lirica, virtuosismi strumentali, interpretazioni appassionate di giovani dotati e tribute-band.

Un sincero plauso va a questa formula originale di intrattenimento e spettacolo, per il merito di dare risalto ed incoraggiare le innovative realtà artistiche della nostra Lucania.

Datemi un martello...

 

Datemi un martello...

In una fredda e nevosa notte lucana, sfidando impavidamente (?!?) l'inclemenza dei Numi, abbiamo finalmente assistito all'ultimo episodio della magnifica saga degli Avengers, i Vendicatori. 
Forse i teneri virgulti, cresciuti all'ombra della Nintendo, non sanno quale straordinaria pietra miliare sia stata la Marvel per noi ragazzi dei leggendari anni '80.
Possono soltanto intuire quanto abbiano contato per noi le nostre sacre collezioni di quegli albi a fumetti, tutti a colori, popolate di personaggi come Spiderman, Daredevil, Superman, Ironman o per l'appunto Thor, figlio di Odino.
La bella pellicola di Alan Taylor riprende le gesta del Supereroe, interpretato da un muscoloso quanto scarsamente espressivo Chris Hemworth, potente vendicatore e Salvatore dell'universo, alle prese questa volta con l'elfo oscuro e cattivone Malekith (ahi ahi maestro Tolkien, quante volte rubacchiano dal tuo piccolo mondo antico...). 
Il cosmo intero rischia di precipitare nelle tenebre, in balia del lato oscuro della Forza (o quella era un'altra storia, mah...), che si veicola nel bellissimo corpo di Jane Foster (stupenda Natalie Portman, da noi già adorata alla follia  nella sua interpretazione del Cigno Nero) che neanche Odino (interpretato come al solito magistralmente dal quel grande vecchio del cinema chiamato Antony Hopkins) in persona con tutto il suo gigantesco Ego riesce a fronteggiare.
Ci pensa il figlio biondo e virtuoso a lottare strenuamente contro il male e i trucchetti del fratellino mago Loki,  simpatica canaglia radical-chic, facendo volteggiare vorticosamente e...sonoramente il suo martellone (che, per i più curiosi, ha il nome impronunciabile di  Mjollnir, e lungi dall'essere un emblema fallico, nella mitologia nordica rappresenta la potenza del lampo unita alla forza del tuono e avrebbe ispirato poi il simbolo della svastica e tutte le ideologie nefaste al seguito).
Insomma in questo film converge la maschia spettacolarità hollywoodiana, con il fascino eterno della mitologia, vecchia quanto la Magna Grecia, ma pur sempre ispiratrice di sogni, metafore ed utopie che infervorano gli animi dei guerrieri della quotidianità.
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Viva viva l'Inghilterra...pace donne amore e libertà...

Viva viva l'Inghilterra...pace donne amore e libertà...


"Questione di tempo" è una delicata commedia romantica, con un velo di sentimentale malinconia, screziata da venature vagamente fantascientifiche.  Non aspettatevi esiti sconvolgenti in stile "butterfly effect" e neppure voli pindarici da macchina-del-tempo.
La terza prova di regia per Richard Curtis, dopo l'esordio di Love  Actually e le originali  sceneggiature di Bridget Jones e Quattro matrimoni e un funerale, riconferma il suo notevole talento nel tratteggiare la storia di vite straordinariamente normali.
La trama del film ruota intorno alla singolare capacità del protagonista di viaggiare a ritroso nel tempo e poter rivivere attimi della propria vita. Tim Lake riceve questa investitura dal proprio padre, nel giorno del suo ventunesimo compleanno, e prende una subitanea decisione: il "motore" che spingerà l'espressione del suo superpotere non sarà il denaro bensì l'Amore. E così il nostro cuore impavido lascia la natia provinciale Cornovaglia e parte alla conquista della multiforme e tentacolare capitale, la mitica Londra. Il ragazzo ha le spalle strette ma si farà strada nel lavoro e negli affetti: entra in un rinomato studio legale e conquista abbastanza agevolmente la donna della sua vita, che sposerà, dandogli degli splendidi figli. Insomma tutto liscio, senza drammi o scossoni. 
La metafora: il sale della vita è la quotidianità, con tutta la sua unicità, fatta di ansie, sentimenti, emozioni e delusioni. Vale la pena di assaporare ogni attimo,  come se avessimo il dono di viverlo e riviverlo all'infinito.
Per concludere, i lettori mi consentiranno una piccola divagazione.

 

Hollywood è un'industria capace di sfornare capolavori di pura ingegneria cinematografica, roboanti di spettacolare profusione di risorse e perfezione tecnica, ma a cui spesso manca quella ineffabile pienezza di spirito, dal sapore così Old England... English-style significa moderno e antico al tempo stesso, austero e fantasioso,  monocorde e variopinto, conservatore e creativo.

 

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Capitano...oh mio capitano...

 

Capitano...oh mio capitano...

Ritorna il naufrago Tom Hanks, ritorna a solcare i mari insidiosi l'attore più umano di Hollywood.
Phillips è un capitano coraggioso, un eroe per caso, dotato di una carica straordinaria di ingenua umanità.
La vicenda è notoria: la rotta delle navi cargo che circumnavigano il corno d'Africa è infestata dai nuovi pirati somali. Il loro modus operandi è semplice quanto disperato: un manipolo di famelici e cenciosi pescatori imbracciano non già remi e reti, ma rugginosi e tonanti Kalashnikov, per andare all'assalto delle opulente fortezze occidentali,  cariche di dollari e miraggi di benessere. L'esito non è quasi sempre scontato: talvolta i novelli predatori riescono ad avere la meglio e si spolpano la succulenta cacciagione; altre volte, come nella trama di questo film, peraltro cronaca realmente accaduta, la faccenda si complica maledettamente di drammatici imprevisti. La nave carica di aiuti umanitari si trova a solcare un periglioso braccio di mare a ridosso della costa somala. Come da copione è attaccata dai pirati, che inseguono il mastodonte con potenti carrette e superano d'un balzo le ridicole difese costituite da quattro idranti e tre griglie. Una volta a bordo inizia un'estenuante gioco di logorante negoziazione tra un Davide nero impavido e belluino contro un Golia bianco bolso e piuttosto imbelle. Il comandante viene preso in ostaggio e inizia una claustrofobica fuga in scialuppa verso la costa somala, cavalcando le onde della disperazione e delle patetiche illusioni, stroncate dall'intervento muscoloso della Marina americana.
La pellicola diretta da Paul Greengrass è bella, forte, intensa, crudamente realistica come un suo precedente lavoro, noto come The Bourne Supremacy. La recitazione è coinvolgente, obbligando lo spettatore ad immedesimarsi nella scottante attualità del sottosviluppo e della violenza nel continente nero.
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Cinema la summa delle Arti

Cari amici net-lettori,

mi pregio di aderire a questa nuova e stimolante iniziativa culturale. parlandovi non già della tecnologia che ci costringe a forzosa e diuturna sommersione, ma della Musa che mi sostiene e rincuora da sempre negli affanni di questa società perennemente in avanguardia: il Cinema.

Forse non è un caso se proprio nel trentennale anniversario della dipartita del Maestro Fellini, noi ingenui adepti ci avvediamo di ritrovare nel Cinema la summa delle Arti, la cristallizzazione del perfetto connubio di Teatro, Musica e Fotografia.

Uno scenario di Kubrick, un'espressione di De Niro, una melodia di Morricone sono un patrimonio immarcescibile, una ricchezza comune e sempre moderna.

Per questo ringrazio LaPretoria di ospitare questa mia piccola rubrica settimanale, dedicata al Cinema e alle sue eccellenze, ai suoi Maestri ma anche agli allievi, ai miti di ieri come alle promesse di domani.

LaPretoria è una testata che nasce dall'amore per la propria città, Potenza e per la propria Regione, la Basilicata. Pertanto mi pare naturale iniziare questo percorso con “Una piccola impresa meridionale”, diretto dal nostro conterraneo Rocco Papaleo ed ispirato al romanzo omonimo, scritto dallo stesso Papaleo.

La vicenda è racchiusa in una trama semplice e paradigmatica: un’ipotetica località senza tempo, in un qualsiasi scorcio incantato del nostro profondo Meridione, all’ombra di un simbolico Faro, diventa un refugium peccatorum per una variegata compagnia di figure umane.

Tutti i personaggi sono degli “ex” e vivono una loro personale forma di crisi nei confronti del mondo esterno: l’ex-prete cinquantenne vive il proprio conflitto tra fede e virilità; l’ex-marito vive addirittura un doppio disagio di uomo “sotto…sotto…strapazzato da anomala passione” (per dirla in maniera werthmulleriana) e di musicista mancato ed introverso; l’ex-prostituta si porta addosso il pesante fardello del proprio passato, apparentemente con disinvoltura ma con l’ardente desiderio di affrancarsene e di vivere un’esistenza normale di donna e moglie; l’ex-maestra, madre anziana che fatica a comprendere la complessa modernità, ma che alla fine della fiera si rivela più comprensiva e moderna di tutti quanti; la badante ex-ballerina che lotta per non reprimere l’espressione del proprio amore saffico; l’ex-famiglia circense trasformatasi in scalcinata impresa edile, affinando una sua ineffabile arte-di-arrangiarsi tutta partenopea.

Sul piano della pure arte recitativa, si denota una grande espressività negli sguardi e nei sospiri dei protagonisti, a cui fa da contrappunto la bellezza selvaggia delle donne e della natura.

Il film di Papaleo è permeato di una intensa “lucanità”: neologismo che ci piace adottare per indicare quella mescolanza di accenti da sud-del-mondo, quella filosofia di vita primordiale che riscalda il cuore, quella forza emozionante degli umili, uniti e divisi in un destino beffardo.

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