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Daniele Nardiello

Daniele Nardiello

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Il piano segreto di Berlino per "germanizzare" l'Europa

 

L'idea di Schäuble è quella di un'Unione ancora più rigida che non fa sconti a chi sgarra. E a guida tedesca

 

I suoi uomini all'opera nella Detlev-Rohwedder-Haus, raro esempio di architettura nazista sfuggito ai bombardamenti alleati su Berlino, immaginano già un'Ue senza gli inglesi finalmente piegata al rigorismo.

È stato Handelsblatt, il primo quotidiano economico tedesco, a svelare cosa bolle in pentola: il «piano segreto» punta a inchiodare «gli Stati membri davanti alla loro responsabilità per una politica di bilancio stabile»; massimo rispetto, dunque, per le regole sul Patto di stabilità, sul Patto per la crescita o sul Fiscal compact. Come ottenere tanta severità da una manica di paesi mediterranei indisciplinati? È semplice: «Immaginando la possibilità per la Commissione di respingere i bilanci nazionali che non corrispondano alle direttive europee sul deficit». Questo il bastone. Quanto alla carota, il piano Schäuble prevede anche uno stimolo: la corretta implementazione delle direttive rivolte ai singoli Stati darebbe accesso a più risorse dei fondi strutturali.

«Niente di nuovo sotto il sole», spiega al Giornale Björn Hacker, docente di Economia Politica all'Università delle Scienze Applicate di Berlino (Htw). «A chi in Germania o all'estero - come il vicecancelliere Sigmar Gabriel, Matteo Renzi e Francois Hollande - chiede un bilancio comune, Schäuble risponde picche: nessun nuovo budget ma solo le risorse già esistenti. E a chi non rispetta le direttive, non toccano neppure i fondi strutturali». Secondo l'accademico il piano del falco del pareggio di bilancio avrebbe effetti depressivi: «Uno stato già in difficoltà non solo non potrà ricorrere a uno stimolo fiscale o a politiche espansive, ma si vedrà tagliare anche le risorse dei fondi strutturali».

Quanto alla Commissione, il rafforzamento del suo potere sarebbe solo formale. La riforma serve infatti a privarla del ruolo di custode dei Trattati, assegnato a una non meglio specificata autorità garante non elettiva. Ridotto il numero dei commissari, al collegio oggi guidato da Juncker resterebbe solo l'onere di approvare o respingere i bilanci nazionali non in regola. «Sarebbe la fine del potere politico della Commissione: una vendetta per avere in passato concesso dilazioni e flessibilità agli Stati invece di attivare le procedure per deficit eccessivo». La scure del ministro si abbatte poi sull'unica istituzione che in questi anni ha agito in piena autonomia: la Banca centrale europea. Il programma di Schäuble prevede di toglierle il controllo delle banche europee, definito «in conflitto d'interessi con la gestione della politica monetaria».

«Sarebbe la fine del progetto di un'unione bancaria: d'altronde né il ministro né la Merkel l'hanno mai voluta - ricorda il docente - ma nel 2012 Mario Monti e l'allora neoeletto Hollande strapparono la promessa alla cancelliera, che da parte sua cercava il loro appoggio per il Fiscal compact». Il piano svelato da Handelsblatt presenta però un vantaggio: è capace di scontentare sia chi crede a un'unione più stretta basata su una vera unione monetaria e bancaria sia gli euroscettici che chiedono un'Ue con meno competenze. L'ultima novità Schäuble la riserva per l'Esm: il Meccanismo europeo di stabilità assume progressivamente le competenze della troika, oggi suddivise fra Commissione, Bce e Fmi. Una «riforma positiva» per Hacker che ha il pregio, dalla prospettiva di Schäuble di far fuori il Fondo monetario internazionale, colpevole in passato di aver proposto la ristrutturazione del debito greco, laddove i tedeschi «vogliono esigere i loro crediti senza sconti».

Fonte: http://www.ilgiornale.it/
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Carburanti, nel 2015 gli automobilisti hanno speso 8 miliardi in meno ma i prezzi salgono

 

La relazione dell'Unione petrolifera: la crisi pesa ancora, i consumi crescono sia pur di poco. Sul totale dei prodotti il gasolio resta il più gettonato con il 40%. La fattura dovuta al greggio è a 16 miliardi di euro, la più bassa da 20 anni. E' allarme rosso per il fenomeno dei furti dagli oleodotti e dai distributori. Cresce anche il contrabbando: +231% in 4 anni
 
 
 
ROMA - I costi di gestione sono sempre altissimi ma per chi sceglie l'auto o la moto per i propri spostamenti nel 2015 e nei primi cinque mesi del 2016, le cose sono andate meglio del previsto. Complice il crollo delle quotazioni del petrolio (che non durerà per molto) il risparmio complessivo per gli automobilisti è stato di circa 8 miliardi di euro. I maggiori benefici, sottolineati dal presidente dell'Up Claudio Spinaci nella relazione annuale dell'Unione petrolifera, li hanno avuti soprattutto quelli che utilizzano un veicolo con motore diesel, che ha "tagliato" di quasi 6 miliardi di euro il costo del rifornimento mentre la verde ha permesso risparmi per le auto a benzina pari a 1,9 miliardi.

Una tendenza che è proseguita ad un ritmo leggermente inferiore nei primi cinque mesi del 2016, durante i quali sono stati risparmiati 3 miliardi di euro. La dinamica, quindi, resta positiva con lo stacco ponderato del prezzo industriale (quello al netto di Iva e accise) che è risultato nello stesso periodo inferiore di 3 millesimi rispetto a quello dei paesi dell’area euro. Quasi un miracolo dopo anni di stacchi col segno più. Nell'agenda dei petrolieri resta ai primi posti anche la necessità di tagliare il numero di distributori di benzina presenti sul territorio. Oggi sono molti più degli altri Paesi dell'Ue comparabili col nostro: dai 21mila di oggi è necessario scendere ad almeno 15mila per ridurre i costi e tenere i prezzi a livelli europei. 

Il bel tempo sugli automobilisti e sulla dinamica dei prezzi (buona parte dell'inflazione è "guidata" dal costo del petrolio) è destinato a durare comunque pochi mesi. Infatti, nel primo semestre del 2016 il Brent è tendenzialmente tornato ad aumentare, arrivando a fine maggio a 49,6 dollari al barile e superando i 50 dollari nella prima decade di giugno: rispetto al minimo di gennaio di 25,8 dollari il Brent ha messo a segno un progresso di oltre il 90%. La media dei primi sei mesi si attesta così a quota 39. 

Nel suo complesso, la fattura energetica nazionale è stata di circa 34,5 miliardi di euro, in calo di oltre 10 miliardi rispetto al 2014; quella petrolifera è stata di poco superiore ai 16 miliardi di euro, circa 9 miliardi in meno rispetto al 2014, determinando l’87% del risparmio complessivo. Per il 2016 si stima un "conto" ancora in discesa: fra i 13 e i 15 miliardi in base all’andamento del cambio e del prezzo del greggio, soprattutto nella seconda parte dell’anno. In ogni caso è un risultato fra i più bassi degli ultimi 20 anni in termini reali nonostante il maggior esborso dovuto alla fermata da aprile della produzione nella Val D’Agri, il cui mancato contributo al saldo complessivo può pesare tra gli 800 e i 900 milioni di euro.

I consumi: nei primi cinque mesi del 2016 sono apparsi in leggera crescita, con un progresso dell’1,1% rispetto allo stesso periodo del 2015. Il gasolio si conferma il principale prodotto autotrazione con circa il 39% dei volumi totali seguito dalla benzina con il 13%. C'è poi un ultimo dato che inizia a preoccupare il settore: i furti dagli oleodotti sono ormai a livelli da allarme. Ogni due giorni nel nostro Paese ce n'è almeno uno e crescono anche quelli nei distributori di benzina: sono stati 165 nel 2015 contro gli appena 54 dell'anno precedente. E secondo la guardia di finanza sono in aumento pure i fenomeni legati al contrabbando di prodotti petroliferi: +231% in 4 anni. 
 

Fonte: http://www.repubblica.it/

 

 

Oasi del respiro, un progetto per combattere inquinamento e malattie respiratorie

Individuate, grazie a un monitoraggio del Crea, alcune aree "pulite" particolarmente preziose per gli asmatici, gli allergici e gli sportivi. Ne è derivata una sorta di certificazione ambientale Sono tra i 100 e i 150 milioni le persone affette da asma a livello mondiale e sarebbero circa 180mila ogni anno le morti ad essa associate (dati OMS). In particolare in Italia ogni anno circa 9 milioni di persone si ammalano di allergie respiratorie dovute alla presenza di pollini nell’aria, di cui circa 4 milioni ricorrono a cure. Circa il 15%-20% della popolazione italiana soffre di allergie, fenomeno in crescita, soprattutto tra i più giovani e le donne. In quest’ottica, la qualità dell’aria diventa sempre più prioritaria per la salute umana, in quanto i pollini e gli inquinanti sono fonte di malattie respiratorie. Proprio per questo motivo il CREA, con il suo centro di Selvicoltura, ha partecipato al progetto Oasi del Respiro, presentato lo scorso 4 giugno a Nocera Umbra, in occasione della prima Consensus Conference delle Associazioni di pazienti affetti da malattie respiratorie. Il progetto nasce con l’intento di fornire alle amministrazioni locali strumenti per la conoscenza della qualità dell’aria nel proprio territorio. Il CREA, attraverso un’intensa attività di monitoraggio floristico, ha individuato alcune aree "pulite" particolarmente preziose per gli asmatici, gli allergici e gli sportivi. Ne è derivata una sorta di certificazione ambientale, consistita in una mappatura di Percorsi Oasi del Respiro, ad alta accessibilità, in aree selezionate di media montagna e di alcune strutture recettive impegnate nella tutela del benessere respiratorio dei propri ospiti. Inoltre ha contributo al piano del verde ipoallergenico del comune di Nocera Umbra per un’oculata gestione del verde urbano orientata alla riduzione dell’allergenicità e dell’impatto sulla salute umana (indicazioni anche sulla sostituzioni di specie fortemente allergeniche o per la periodica potatura di aiuole). In aggiunta, all’inizio del prossimo anno verrà edita una app di fruizione adatta ad ogni cittadino, una volta ottenuti i risultati del primo anno di monitoraggio. "Rendere la vita migliore ogni giorno – ha spiegato Ida Marandola, Direttore Generale del CREA - a partire da quel che respiriamo. Questo dovrebbe essere l’obiettivo della ricerca. La competenza scientifica dei nostri ricercatori utilizzata a 360 gradi - dal monitoraggio dell’aria alla pianificazione e gestione del verde urbano - per consentire a tanti nostri concittadini, soprattutto bambini, di fronteggiare i disturbi respiratori legati ad asma ed allergie". Fonte: http://www.teatronaturale.it/ Immagine tratta da: www.tecnowall.it

Coldiretti: i broccoli cinesi guidano la black list dei cibi più contaminati

 
 

Con la quasi totalità (92%) dei campioni risultati irregolari per la presenza di residui chimici sono i broccoli provenienti dalla Cina il prodotto alimentare meno sicuro, ma a preoccupare è anche il prezzemolo del Vietnam con il 78% di irregolarità e il basilico dall`India che è fuori norma in ben 6 casi su 10. E` quanto emerge dalla "Black list dei cibi più contaminati" presentata dalla Coldiretti, sulla base delle analisi condotte dall`Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) nel Rapporto 2015 sui Residui dei fitosanitari in Europa, al Palabarbuto di Napoli in occasione della mobilitazione di migliaia di agricoltori italiani con i trattori a difesa della dieta mediterranea.
La conquista della vetta della classifica da parte della Cina non è un caso poiché il gigante asiatico - ricorda la Coldiretti - anche nel 2015 ha conquistato il primato nel numero di notifiche per prodotti alimentari irregolari perché contaminati dalla presenza di micotossine, additivi e coloranti al di fuori dalle norme di legge, da parte dell`Unione europea, secondo una elaborazione della Coldiretti sulla base della Relazione sul sistema di allerta per gli alimenti. Su un totale di 2.967 allarmi per irregolarità segnalate in Europa, ben 386 (15%) - precisa la Coldiretti - hanno riguardato il gigante asiatico che in Italia nello stesso anno ha praticamente quintuplicato (+379%) le esportazioni di concentrato di pomodoro che hanno raggiunto circa 67 milioni di chili nel 2015, pari a circa il 10% della produzione nazionale in pomodoro fresco equivalente.
Se nella maggioranza dei broccoli cinesi è stata trovata la presenza in eccesso di Acetamiprid, Chlorfenapyr, Carbendazim, Flusilazole e Pyridaben, nel prezzemolo vietnamita - sottolinea la Coldiretti - i problemi derivano da Chlorpyrifos, Profenofos, Hexaconazole, Phentoate, Flubendiamide, mentre il basilico indiano contiene Carbendazim che è vietato in Italia perché ritenuto cancerogeno.
Nella classifica dei prodotti più contaminati elaborata alla Coldiretti ci sono però anche le melagrane dall`Egitto che superano i limiti in un caso su tre (33%), ma fuori norma dal Paese africano sono anche l`11% delle fragole e il 5% delle arance, che arrivano peraltro in Italia grazie alle agevolazioni all`importazione concesse dall`Unione europea. Con una presenza di residui chimici irregolari del 21% i pericoli - continua la Coldiretti - vengono anche dal peperoncino della Thailandia e dai piselli del Kenya, contaminati in un caso su dieci (10%).
I problemi - sottolinea la Coldiretti - riguardano anche la frutta dal Sud America, come i meloni e i cocomeri importati dalla Repubblica Dominicana che sono fuori norma nel 14% dei casi per l`impiego di Spinosad e Cypermethrin.
E` risultato irregolare - sottolinea la Coldiretti - il 15% della menta del Marocco, un altro Paese a cui sono state concesse agevolazioni dall`Unione europea per l`esportazione di arance, clementine, fragole, cetrioli, zucchine, aglio, olio di oliva e pomodori da mensa che hanno messo in ginocchio le produzioni nazionali. L`accordo con il Marocco - precisa la Coldiretti - è fortemente contestato dai produttori agricoli proprio perché nel Paese africano è permesso l`uso di pesticidi pericolosi per la salute che sono vietati in Europa.
L`agricoltura italiana- continua la Coldiretti - è la più green d`Europa con 281 prodotti a denominazione di origine (Dop/Igp), il divieto all`utilizzo degli ogm e il maggior numero di aziende biologiche, ma è anche al vertice della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari (0,4%), quota inferiore di quasi 4 volte rispetto alla media europea (1,4%) e di quasi 20 volte quella dei prodotti extracomunitari (7,5%).
"Non c`è più tempo da perdere e occorre rendere finalmente pubblici i flussi commerciali delle materie prime provenienti dall`estero per far conoscere anche ai consumatori i nomi delle aziende che usano ingredienti stranieri", ha sottolineato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare che "bisogna liberare le imprese italiane dalla concorrenza sleale delle produzioni straniere realizzate in condizioni di dumping sociale, ambientale con rischi concreti per la sicurezza alimentare dei cittadini".

Fonte: www.italiaoggi.it

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tg24.sky.it

 

Bye Bye petrolio: nel 2040 un’auto nuova su tre sarà elettrica (e l’oro nero crollerà)

 

C’è un momento, preciso e imprevedibile, in cui una nuova tecnologia si afferma e dilaga in tutto il mondo senza freni. È accaduto nello scorso decennio con gli smartphone, in quello precedente con i cellulari, negli anni Settanta con le tv a colori. Non è facile indovinare quale sarà la prossima tecnologia ad affermarsi e in che tempi. Bloomberg New Energy Finance però non ha dubbi sul “cosa” e sul “quando”: si tratterà delle auto elettriche, che si affermeranno definitivamente nell’arco della prossima generazione.

Nel 2040 il 35% delle nuove auto (contro l’1% di oggi) avrà una spina per ricaricare le batterie, spiega la ricerca, e le vetture elettriche a lungo raggio costeranno meno di 22mila dollari (circa 20mila euro). Il tutto sarà possibile grazie al crollo dei prezzi delle batterie agli ioni di litio, che già oggi costano il 65% in meno che nel 2010, ma che sono destinate entro il 2030 a costare un terzo degli attuali prezzi, spiega Colin McKerracher di Bloomberg New Energy Finance, o forse ancora meno per effetto dell’innovazione tecnologica.

Considerando i costi complessivi di possesso, lo studio calcola che già tra una decina d’anni i veicoli al 100% elettrici come la Nissan Leaf (non, quindi, gli ibridi) diventeranno più economici delle vetture con il tradizionale motore a combustione. E questo senza calcolare il peso di futuri incentivi all’uso dell’auto elettrica. La nuova generazioni di veicoli in grado di percorrere 200 miglia (oltre 320 chilometri) senza ricaricare le batterie è in rampa di lancio: si tratta per esempio della Tesla Model 3 e della Chevy Bolt, in arrivo nell’arco del prossimo anno e mezzo.

Ormai i costruttori stanno investendo miliardi nell’auto del futuro. Il tasso di crescita globale del settore, l’anno scorso, è stato del 60%, e Tesla prevede che resterà tale almeno fino al 2020. Come nota Tom Randall di Bloomberg, è più o meno lo stesso passo che ha permesso alla Ford T di battere cavalli e carrozze negli anni Dieci del Novecento (per dare un’idea di Ford T ne vennero fabbricate oltre 15 milioni tra il 1908 e il 1927, più del triplo delle Nuove 500 prodotte dalla Fiat tra il 1957 e il 1975). Ecco: secondo lo studio di Bloomberg New Energy Finance le auto elettriche, che nel 2015 si stima fossero 462mila, toccheranno quota 41 milioni.

Non è difficile intuire chi farà la fine del cavallo all’epoca della Ford T, nel caso dell’auto elettrica. Già negli ultimi due anni il settore petrolifero - e tutte le nazioni che si reggono sull’oil, dalla Russia al Medio Oriente - ha visto sgretolarsi prezzi e certezze, ma ora la cosa potrebbe diventare ancora più seria. Se la crescita dei veicoli elettrici dovesse mantenere il passo (+60% l’anno), già nel 2023 ci sarebbero due milioni di barili di petrolio in eccesso rispetto alla domanda.

Certo, va poi considerata la variabile del prezzo del greggio, che può accelerare o rallentare il destino elettrico delle quattro ruote. «La nostra previsione centrale è basata su un greggio che torna a 50 dollari, salendo a 70 dollari nel 2040 - spiega Salim Morsy, senior analyst di Bloomberg New Energy Finance - . Ma è interessante notare che, anche qualora il petrolio crollasse a 20 dollari restando schiacciato a quei livelli, l’effetto sarebbe solo di ritardare al 2030 “l’elettrificazione di massa” delle auto».

Attenzione poi alla cosiddetta “variabile Uber”, di cui il report di Bloomberg tiene conto. Se il fenomeno delride sharing dovesse continuare a crescere a questo ritmo, spiega la ricerca, le auto “in condivisione” percorreranno molti più chilometri, rendendo ancora più conveniente la scelta di vetture elettriche. In caso di crescita continua di Uber (e degli altri servizi simili come Lyft), nel 2040 le auto con la presa di corrente potrebbero rappresentare addirittura la metà del mercato. E il vecchio motore a combustione? Poco alla volta finirà nei musei, di fianco alle cabine telefoniche e alle banconote cartacee.

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La grande fuga dal Sud comincia all’università, chi si laurea al Nord lavora prima e guadagna di più

Un grande esodo di cervelli verso il Nord. Che inizia all’università e continua poi quando si cerca un posto di lavoro. E così il Meridione rinuncia a oltre un quarto del suo capitale umano a favore del Nord. Perdendo di fatto un pezzo del suo futuro. Ma come biasimare i giovani meridionali? Chi si laurea al Nord trova lavoro prima (dopo un anno il 74% contro il 53%) e guadagna come primo stipendio oltre 200 euro in più. La nuova impietosa istantanea di un Paese a due velocità anche sul fronte della formazione arriva dall’ultimo rapporto di Almalaurea presentato a Napoli. Che conferma anche la fuga complessiva dall’università: dal 2003 al 2015 gli atenei hanno perso quasi 70mila matricole (-20%). E anche qui il divario è abissale: al Sud la contrazione è del 30% al Nord è solo del 3 per cento. Per l’Italia questo crollo aumenta il ritardo rispetto all’Europa, come certifica oggi anche Eurostat, che ci mette all’ultimo per numero di laureati: tra i 30 e i 34 anni i dottori italiani sono il 25,3% contro una media Ue del 38,7 per cento.

La mobilità degli studenti 
Il nuovo rapporto presentato da Almalaurea - che comprende insieme sia l’identikit dei laureati italiani e il focus sulle condizioni occupazionali - mostra qualche timido segnale di ripresa per gli sbocchi sul lavoro dei nostri “dottori” a dimostrazione che l’investimento negli studi conviene sempre: il tasso di occupazione tra i laureati triennali a un anno dal titolo è del 67% (un punto in più rispetto all’indagine dell’anno prima) e del 70% tra i magistrali (+0,3%). Prima della crisi nel 2007 era però rispettivamente l’82% e l’80,5 per cento. L’altra buona notizia che emerge dal report è che i nostri laureati concludono gli studi prima e sono più regolari rispetto al passato: l’età in cui si completa il corso di studi è 26,2 anni, in cinque stagioni la media è scesa di sette mesi. Quest’anno, però, il consorzio che riunisce 73 atenei e monitora oltre570mila laureati ha deciso di focalizzarsi anche sui divari territoriali cominciando dalla mobilità degli studenti. Mobilità che è molto bassa al Nord dove, su cento laureati, solo due cambiano ripartizione territoriale e cresce al Centro, dove la quota di chi migra per studiare è pari all’8 per cento. Al Sud neanche a dirlo, sale ulteriormente: il 20% decide di fare la valigia per studiare in un ateneo del Nord. E non finisce qui, perché la mobilità territoriale nel passaggio dall’università al mercato del lavoro è più frequente rispetto alla mobilità per motivi di studio. Perché, come ricorda il rapporto di Almalaurea, «mobilità richiama mobilità».

Le altre differenze 
L’esodo verso il Nord continua anche dopo la laurea. Ecco cosa accade a cinque anni dal conseguimento del titolo: su cento laureati residenti al Nord, 7 se ne vanno per lavorare, prevalentemente all’estero; dal Centro, a spostarsi sono il 13% dei laureati, prevalentemente al Nord; il Sud perde oltre un quarto del suo capitale umano: il 26 per cento. Anche a livello di sbocchi sul lavoro tra i laureati magistrali indagati a uno e a cinque anni dal titolo, il divario territoriale resta elevato e sempre a favore del Nord. A un anno dal titolo è occupato il 74% dei laureati residenti al Nord e il 53% di quelli meridionali. Il tasso di disoccupazione è pari al 17% tra i colleghi del Nord e sale al 36% tra quelli del Sud. Elevate anche le differenze retributive: al Nord il primo stipendio medio è di 1.290 euro mensili netti rispetto ai 1.088 euro dei colleghi del Mezzogiorno. A cinque anni dal conseguimento del titolo le differenze territoriali tra Nord e Sud del Paese si riducono apprezzabilmente, ma restano sempre a favore del Settentrione. Tra i laureati magistrali il differenziale occupazionale Nord-Sud scende a 15 punti percentuali. Lavorano 89 laureati su cento residenti al Nord, mentre al Sud l’occupazione coinvolge il 74% dei laureati. Tra uno e cinque anni, scende anche il differenziale del tasso di disoccupazione che si attesta su 12 punti percentuali: è pari al 6% al Nord e al 18% al Sud. Migliorano anche le retribuzioni: al Nord si attestano a 1.480 euro mensili netti, mentre al Sud arrivano a 1.242 euro.

 
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Orti aziendali, firmato il protocollo per portarli in tutta Italia

 
 

Orti aziendali, firmato il protocollo per portarli in tutta Italia

Sono un fenomeno sempre più diffuso ma il buon esempio lo danno soprattutto i grandi gruppi. Microsoft, Diesel, Unicredit e molte altre hanno inaugurato degli spazi green per i propri dipendenti. I prodotti sono spesso usati nelle mense lavorative
 
C'è chi, grazie a quella insalata da coltivare in condivisione, ha smesso di litigare col vicino e ridotto le pillole antistress. Chi ha rivalutato il piacere di mangiare sano. E chi ha stretto amicizie con il capo autoritario. E' l'orto urbano il responsabile dell'improvviso miglioramento di molti stili di vita. Ed oggi viene firmato un protocollo d'intesa tra Anci e Italia Nostra per favorire la diffusione degli Orti Urbani su tutto il territorio italiano.

E per una volta sono le aziende a dare il buon esempio. Sdoganato da realtà dall'animo verde, come l'americana Aveda che organizza turni di semina e raccolta tar i dipendenti, il modello green dell'orto aziendale è stato adottato da colossi come Microsoft, Google, Yahoo. Toyota. Non solo all'estero però. Da qualche tempo l'orto è arrivato anche in Italia con Diesel, Bottega Veneta, Unicredit e molte altre. Diesel ne ha uno così grande che permette di condividere il piacere della coltivazione con i figli dei dipendenti. Lo racconta Stefano Rosso, amministratore delegato di OTB: "Il nostro  è ll'orto del nido e della scuola dell'infanzia aziendali. Quando abbiamo progettato la nuova sede di Diesel e di OTB, la capogruppo,  abbiamo ritenuto importante offrire ai nostri dipendenti  il servizio. Ci sono dieci piccoli appezzamenti dedicati alle diverse coltivazioni stagionali di cui i bambini si occupano direttamente. Due volte l'anno fanno  la piantagione e poi la raccolta dei frutti. All'interno è stata creata una spirale aromatica, dove i piccoli piantano le diverse erbe aromatiche per imparare a riconoscere le differenze usando tatto, gusto e olfatto.
 
Nell'Antica Officina Santa Maria Novella a Firenze, il giardiniere Daniele cura ogni mattina fiori e ortaggi: "Oltre ad essere la base per creme e profumi, sono anche la gustosa materia prima per i pranzi serviti alla mensa aziendale". Ma c'è anche una motivazione terapeutica. A quanto pare sporcarsi le mani di terra con il vicino di banco rende tutti più armonici anche nel mondo della finanza. Parte integrante delle UniCredit Tower sono "gli Orti" ricavati sulle terrazze collocate al secondo piano delle Torri. Qui, i dipendenti della banca che hanno aderito all'iniziativa "Coltiva il tuo spazio", possono coltivare un piccolo appezzamento di terra e seguirlo nel suo intero ciclo di vita, dalla semina al raccolto. Raccontano dalla banca: "Partecipano più di cinquanta persone nei due orti delle torri A e B, che si trovano all'esterno delle Tree House, ogni dipendente ha uno spazio di 40 cm per 60, su un totale di otto metri. La sola regola è il rispetto della propria e altrui area. Ciascuno può coltivare ciò che vuole gestendo il proprio spazio in totale autonomia e può recarsi all'orto in qualsiasi momento della giornata, anche se tendenzialmente si predilige la pausa pranzo". I prodotti più diffusi? Basilico, menta, prezzemolo, fragole, piantine di agrumi.

Nel luglio 2014 Bottega Veneta ha inaugurato il giardino Eco-Food presso gli uffici di Milano. Quest'area verde di 2.400 metri quadrati è stata progettata per offrire ai dipendenti uno spazio di relax a contatto con la natura e contemporaneamente per rifornire il ristorante aziendale interno di prodotti freschi a chilometro zero. Ci sono tipologie di piante aromatiche o leguminose, quali ad esempio borragini, mente e timi, di alberi da frutti, come ciliegio canino, prugnolo, sorbo e nespolo comune, ma anche di verdure fresche, come diversi tipi di pomodoro, peperone, melanzana e cetriolo".
 
E all'estero? Il 'Km zero' di Microsoft si chiama Urban Farming. E' un progetto nato nel campus Microsoft di Redmond. All'interno della struttura, composta di 109 edifici in un'area di 2.400 chilometri quadrati, ogni giorno vengono consumati 40.000 pasti (10 milioni in un anno). Per favorire la coltivazione diretta di frutta e verdura sono state create delle micro-serre avveniristiche collocate nel campus. Utilizzando principalmente le tecniche della coltivazione idroponica, l'azienda ha avviato un sistema di auto-produzione alimentare. Sono state creati dunque degli orti verticali all'interno di torri in plexiglas, dove i consumi idrici ed energetici sono ottimizzati da un sofisticato software. Le verdure fresche coltivate qui vengono poi servite in diversi bar e mense dell'enorme campus di Microsoft. La cosa è stata molto presa sul serio da Pasona, azienda del centro della città di Tokyo, la sede della società è una vera e propria fattoria urbana che si sviluppa su nove piani: 19.974 metri quadrati di cui 4 mila dedicati a spazio verde dove si coltivano più di 200 specie di piante. Di più. I pomodori crescono sospesi sopra il tavolo della sala delle riunioni, i limoni e gli alberi da frutto sono usati come pareti divisorie, il riso cresce nella zona della reception.


Fonte: www.repubblica.it

immagine tratta da www.nonsprecare.it

Lavoro e ripresa,il 70% non ci crede. E senza posto fisso il futuro è un rebus

 
 

Lavoro e ripresa,il 70% non ci crede. E senza posto fisso il futuro è un rebus

Per gli italiani è ancora giusto ricordare il Primo maggio, ma per la stragrande maggioranza è in aumento solo il precariato. Per il 40% è presto per vedere i risultati del Jobs Act, solo l’8% crede abbia funzionato

 
Il Primo Maggio si celebra la Festa del lavoro. E dei lavoratori. Ma i lavoratori - e, in generale, gli italiani - non sembrano trovare grandi motivi per festeggiare. O meglio, vorrebbero. Secondo il sondaggio condotto dall'Osservatorio di Demos-Coop negli ultimi giorni, quasi 7 persone su 10 (nel campione intervistato) ritengono che abbia senso celebrare questa giornata. Ma, in effetti, questo sentimento sembra suggerito da nostalgia più che da speranza.

Contrariamente alle indicazioni fornite dalle statistiche dell'Istat e rilanciate dal premier Renzi, una larga maggioranza della popolazione (intervistata) non crede alla ripresa. Oltre 7 persone su 10 pensano che non sia vero. Che l'occupazione non sia ripartita. Solo l'8%, invece, ritiene che il Jobs Act abbia funzionato. Mentre, secondo la maggioranza (40%), è ancora presto per vederne i risultati. Ma oltre 3 persone su 10 sono convinte che abbia perfino "peggiorato la situazione". Le uniche "forme" di impiego effettivamente aumentate sarebbero, infatti, quelle "informali". Il lavoro nero e quello precario. Così, infatti, la pensa circa il 70% degli italiani (intervistati da Demos-Coop). I quali non vedono grandi cambiamenti nel futuro. Poco più di 2 persone su 10 (per la precisione: il 23%), infatti, contano che la loro situazione lavorativa possa migliorare, nei prossimi anni. Solo cinque anni fa questa sorta di "speranza di vita" - lavorativa - era coltivata da una componente molto più estesa: il 36%.
È un segno evidente dell'incertezza che agita la nostra società, il nostro tempo. Non solo nel lavoro. Due italiani su tre, infatti, ritengono inutile, oggi, affrontare progetti impegnativi, perché il futuro è troppo incerto e rischioso. Così, meglio concentrarsi sul presente. Cercando stabilità. Radicamento. Per questo, il lavoro preferito è il "posto pubblico". Celebrato, con ironia e realismo, da Checco Zalone, nel suo ultimo film (di grande successo) intitolato "Quo vado?". "Posto pubblico", infatti, nel linguaggio e nel discorso corrente, coincide con "posto fisso". Solo alcuni anni fa, invece, l'occupazione preferita era il lavoro autonomo, da libero professionista. Oggi non più. O meglio, non si vede "un" lavoro preferito. Impiego pubblico, lavoro autonomo e da libero professionista, nel sondaggio di Demos-Coop sono guardati con interesse, ciascuno, da circa il 20% degli intervistati. Con una preferenza per l'attività professionale fra i giovanissimi (15-24 anni) e per l'impiego pubblico fra le persone adulte, ma anche fra i "giovani adulti" (25-34 anni).

C'è, dunque, un'evidente tensione fra domanda di stabilità e di autorealizzazione professionale. La domanda di stabilità appare chiara nel riferimento alla famiglia, come principale istituto di tutela. La famiglia. Assai più del sindacato e delle associazioni di categoria. Ma anche dello Stato e degli enti locali. La famiglia. È vista come difesa e sostegno: per chi ha un lavoro, stabile oppure atipico. Ma anche come un faro, per chi naviga nel mercato del lavoro, senza aver trovato una direzione definita e definitiva. In particolare, per i giovani e i giovanissimi. Le componenti maggiormente interessate - e penalizzate - dall'occupazione precaria. E, soprattutto, dalla disoccupazione. I giovani e i giovanissimi, infatti, sembrano destinati, a una posizione sociale peggiore rispetto ai loro genitori. Così la pensano, almeno, i due terzi degli italiani (intervistati da Demos-Coop). E il 73% della popolazione ritiene che i giovani, per fare carriera se ne debbano andare all'estero. Un'opinione diffusa da tempo, ma mai come oggi, se cinque anni fa, nel 2011, era condivisa dal 56%. Dunque, la maggioranza degli italiani, Eppure: 17 punti meno di oggi. I giovani e i giovanissimi: una "generazione altrove". Segno (e minaccia) di una società - la nostra - senza futuro. Che non ha pensato e organizzato un futuro. Per i propri giovani e, dunque, per se stessa. D'altronde, circa l'85% degli italiani, cioè quasi tutti, condividono l'avvertimento - o meglio: la minaccia - dell'INPS. La generazione del 1980 andrà in pensione a 75 anni. Se non più tardi.

Così i dati di questo sondaggio trovano un senso, comunque, una convergenza. Intorno all'incertezza generata dall'eclissi, se non dalla scomparsa, del futuro. Un futuro senza sicurezza (sociale), senza pensione, peraltro, rende più im- portante, anzi, necessaria, la famiglia. Polo di solidarietà intergenerazionale. Che tiene uniti genitori, figli. E nonni. Offre ai giovani, soprattutto, un sostegno nel percorso precario fra studio e lavoro. Che si sviluppa senza più confini. L'idea che i giovani, per realizzarsi a livello professionale, e prima ancora negli studi, debbano trasferirsi all'estero, si è, infatti, tradotta, da tempo, in un'esperienza di massa. E viene guardata con preoccupazione dagli adulti e ancor più dagli anziani. Dai genitori e dai nonni. Non certo dai figli e dai nipoti. Dai giovani e dai giovanissimi. I quali sono biograficamente una generazione "nomade". Migranti, anch'essi. Non per fuggire dalle guerre e dalla povertà. Non per costrizione e per necessità. Ma, ormai, per "vocazione".

E ciò spiega perché i giovani mostrino minore preoccupazione verso i flussi migratori. (Come ha dimostrato il recente Sondaggio 2015 di Demos-Fondazione Unipolis per l'Osservatorio sulla Sicurezza in Europa.) Sono globalizzati, di fatto. Mentre i genitori e la famiglia, garantiscono loro un riferimento sicuro. Un posto dove tornare. Per poi partire di nuovo. Anche per questo, i giovani hanno meno paura della disoccupazione e della precarietà, rispetto alle generazioni più anziane. Anche se ne sono particolarmente colpiti.
 
E appaiono meno preoccupati dei tempi dell'età pensionabile, che si allungano.

I giovani. Non hanno "nostalgia" del futuro. Perché il futuro è davanti a loro. Mentre gli adulti e gli anziani il futuro ce l'hanno alle spalle.
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Immagine tratta da:www.elisabettagardini.it

Olio di palma, oli di semi e margarine potenzialmente pericolose per la salute

 

Secondo l'Efsa glicidolo, 3-MCPD e 2-MCPD sono sostanze genotossiche e cancerogene. Questi contaminanti si vengono a creare a seguito di raffinazione. Ad essere particolarmente esposti e a rischio sono i giovani fino ai 18 anni di età


 
Il rapporto dell'Efsa su alcuni contaminanti degli oli vegetali, a partire dall'olio di palma, e delle margarine è stato diramato e conferma la pericolosità di alcune sostanze per larghi strati della popolazione, in particolare i giovani fino ai 18 anni di età.

Le molecole messe sotto osservazione dall'Efsa sono: glicidil esteri degli acidi grassi (GE), 3 monocloropropandiolo (3-MCPD), e 2-monocloropropandiolo (2-MCPD) e i loro esteri degli acidi grassi.

Si tratta di sostanze che si formano durante la lavorazione degli oli o dei grassi, in particolare, durante la raffinazione di oli vegetali ad alte temperature (circa 200°C).

I più alti livelli di GE, così come di 3-MCPD e 2-MCPD (compresi gli esteri) sono stati trovati negli oli di palma e grassi di palma, seguito da altri oli e grassi.

“Il glicidiolo è genotossico e cancerogeno – ha affermato Helle Knutsen, presidente del gruppo Contam (Gruppo di esperti scientifici sui contaminanti nella catena alimentare) – ormai ne abbiamo sufficienti prove, anche se al momento non abbiamo stabilito limiti di sicurezza per gli alimenti.”

Non è però solo il glicidiolo, e i suoi esteri, a essere pericolosi. Vi sono anche 3-MCPD e 2-MCPD.

"Abbiamo fissato una dose giornaliera tollerabile (TDI) di 0,8 microgrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno per il 3-MCPD e le molecole derivate da esterificazione con gli acidi grassi (esteri acidi grassi del 3-MCPD) sulla base di prove che collegano questa sostanza a danni nei test sugli animali - ha spiegato l'esperto dell'Efsa Knutsen – diversa situazione per il 2-MCPD a causa di informazioni tossicologiche troppo limitiate. Per questo composto non abbiamo fissato limiti.”

Superare le dosi tollerabili dal'Efsa o comunque esporsi a queste sostanze in maniera pericolosa è più probabile per i bambini fino a 3 anni, a causa del consumo di dolci e torte, che contengono significative quantità di oli e grassi vegetali.

Per quanto riguarda il 3-MCPD l'Efsa stima elevate esposizioni per i giovani fino a 18 anni. Fino a questa età l'esposizione spesso supera la dose giornaliera tollerabile, con potenziali rischi per la salute.

immagine tratta da:

Milletrecento miliardi: negli Usa esplode la bomba del debito degli studenti

 
 

Milletrecento miliardi: negli Usa esplode la bomba del debito degli studenti (raddoppiato in otto anni)

Incredibile ma vero, esiste qualcosa al mondo in grado di relativizzare il problema del debito pubblico italiano (e non è quello giapponese). Arriva dai potenti Stati Uniti ed è enorme, sinistro e apparentemente incontrollabile: è il debito contratto dagli studenti che vogliono frequentare le costose - a volte costosissime - università americane.

La notizia del superamento dei mille miliardi di dollari fece scapore: era il 25 aprile 2012, e tutti gridarono allo scandalo chiedendo urgenti provvedimenti. Quattro anni dopo gli Stati Uniti si ritrovano con glistudent debts aumentati di oltre il 32% a quota 1320 miliardi di dollari: quattro volte il Pil della Danimarca, due volte e mezzo il deficit pubblico statunitense, 21 volte il patrimonio netto di Warren Buffett.

«Queste sono cifre enormi - spiega Maggie Thompson, executive director di Generation Progress, braccio “giovanile” di uno dei più importanti think thank americani - è necessario affrontare al più presto il problema, che non è un freno solo per le giovani generazioni ma per l’intera economia».

Gli studenti americani, infatti, si ritrovano appena usciti dall’università con un fardello medio di 35mila dollari da pagare, per lo più attraverso i famosi “prestiti Stafford” dal nome del programma federale che offre tassi di interesse e condizioni di rimborso favorevoli. Il vero problema - e lì non c’è piano di rimborso che tenga - è quando il neolaureato non trova lavoro: accade, secondo le statistiche, al 7,8% degli ex studenti, ai quali andrebbe aggiunto il quasi 17% degli “indefiniti” (quelli che lavorano meno ore di quante vorrebbero, che non lavorano ma sono in cerca di un’occupazione o che hanno abbandonato del tutto la ricerca di un impiego).

Per alcuni di loro c’è lo spettro del default, l’impossibilità di ripagare i prestiti, che colpisce per esempio quasi il 20% degli “studenti mutuatari” dell’Università statale del New Mexico e il 15% di quelli della Ohio University. Non stupisce veder spuntare alcune proteste, come la marcia di studenti dello scorso novembre a New York, condita da striscioni che recitavano “L’istruzione è un diritto” e “Cancellate il debito studentesco”.

Ma quello che preoccupa non è solo lo stock accumulato: il vero problema è che la crescita del debito studentesco è apparentemente incontrollabile - il ritmo è di circa 100 miliardi l’anno - almeno finché qualcuno non deciderà seriamente di metterci mano . E’ incredibile pensare come solo otto anni fa lo student debt fosse la metà di quello attuale. E se si traccia un grafico per visualizzarlo, si vede plasticamente una retta dritta come una spada che dall’angolino in basso a sinistra vola verso quello in alto a destra. Insomma una brutta bestia feroce, al confronto della quale la gestione del debito pubblico italiano - che pure sappiamo non essere un gioco da ragazzi - pare mansueta come un agnellino.

L’amministrazione Obama sta cercando di correre ai ripari, cercando di rendere meno pesante per gli studenti il fardello del “mutuo universitario” con piani di ammortamento più gestibili. Del resto, il presidente americano è alle prese col problema anche sul piano personale: come mostrano le sue dichiarazioni dei redditi, da bravo padre di famiglia Obama nel 2014 ha accantonato una cifra considerevole (tra 200mila e 400mila dollari) in quattro dei 529 “piani di risparmio” per pagare le spese dell’università alle figlie Malia e Sasha.

Anche i due candidati democratici (la Clinton e Sanders) hanno promesso di occuparsi del debito studentesco, e persino quelli repubblicani hanno sfiorato il tema durante la campagna. Ma la realtà è che una soluzione reale al problema appare lontana, anche perché le rette sono in aumento anche nelle meno costose università pubbliche: dopo la recessione, la spending review dei singoli Stati americani si è infatti tradotta in cospicui tagli all’istruzione. Ormai in molti definiscono quella del debito studentesco una vera e propria bolla finanziaria, e solo il futuro ci potrà dire quali record sarà in grado di infrangere prima di esplodere.


Fonte: www.ilsole24ore.com

Immagine tratta da:

www.nextme.it

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